mercoledì 22 aprile 2020

Mariano Apa "Fernanda Mancini Luoghi e tempi delle icone"



                                FERNANDA MANCINI
                      LUOGHI E TEMPI DELLE ICONE
               
                                      Mariano Apa

            Nel corso degli anni il ricercare nelle terre e nelle acque delle arti e il confabulare con l’arte e il trovare dell’arte, han condotto Fernanda Mancini ad una sua coerente e giustificata compagine critico estetica, pervenendo ad una felice rappresentazione di uno spazio d’arte dove l’emozione conduce a maturità di espressione la plurale disponibilità delle proprie intuizioni.
Non si tratta di rincorrere le quantificate cataste accumulate dai calendari degli inquadramenti storico critici; si tratta per l’artista nella propria coscienza di far maturare un disincanto che traduca la bonaccia nichilista in frescura aurorale, là dove lo sguardo raccoglie i suoi tutti degli inizi. Ciascun artista ambisce alla identità della propria forma, del linguaggio e dello stile, che dimostri il proprio vedere. Così Fernanda Mancini realizza uno scomparto di cicli iconografico iconologici volti a definire, in una prospettiva di ampio respiro, la qualità di una eccellenza che infine proclama nei propri lavori la propria specifica unità.        
Il lavoro è sostenuto da una solida impalcatura filosofica, ma Mancini lascia sciogliere, al tempore delle colle calde e delle terre macinate e impastate, i pericoli ideologici delle costrizioni figurativamente programmate. Nell’abbandono all’imprevisto sorge in Mancini l’immagine che permette all’artista di svolgere il proprio racconto e di affabulare lo spartito di colori e rimandi ancestrali per evocazioni di colori e suoni sussurrati o declamati, mai costretti e sempre liberati; per una pittura liberante che libera.  
Affinando il pensare filosofico alla lettura di scritture “epico/ epocali” – da Rilke a Mann, ad esempio – Fernanda Mancini evita le domande della tradizione concettualisticamente tautologica e si innerva per sentieri che, tra il trascorso heideggeriano del sentiero interrotto ed eventualmente anche comunque dove l’essere risulta del sentiero ritrovato, svelano l’intrico felice dell’essere l’arte un Bosco Sacro dove, se pur inconsciamente, si rincorrono le sapienze di Puvis de Chavannes o i funambolici deliri misticheggianti di Joséphin Péladan; da cui i sali caldissimi delle saune francesi, a Parigi in Estate, che nell’opera di Fernanda Mancini si convertono nelle fredde stanze tedesche –  con gli Inverni di Weimer e Munchen – dove pensano e respirano Wolfgang  Goethe e Franz von Stuck: così che l’insieme della ricerca di Mancini sembra quasi come pervenuta ad una sua originale riscrittura del rivisitato Wilhelm Meister.          
Di là dalla burocratica referenza filosofica, il tema dei racconti nelle opere di Fernanda Mancini si fanno carico del proprio ragionare filosofico spurgando le pesantezze ideologie e aspirando alla leggerezza della spiritualità, convenendo così alla trasparenza del beuysiano veltro dei piombi tramutati in oro, secondo le indicazioni del pensiero alchemico che, più volte spesso, non viene taciuto e non viene interiorizzato come nel genio di Duchamp dove si proclama che l’unico modo di fare alchimia, era nel farla “senza saperlo”. Tra la consapevolezza del conoscere e la genuina laica santità del “non saperlo” scorre il fiume dei calendari con cui “ci segnamo la croce”. E rimane accertata quanto del praticare l’arte sia un tentativo, riuscito ed anche non-riuscito, che a ciascun compete secondo la propria divina grazia al confronto della propria sincerità; imponendosi costì la radicale e leggerissima domanda che Rilke si poneva per porla a ciascun di noi:
 “Chi, s’io gridassi, mi udrebbe mai dalle sfere
degli angeli ?  E se pure d’un tratto    
uno mi stringesse al suo cuore: perirei della sua
più forte esistenza. Poiché del terribile il bello
non è che il principio, che ancora noi sopportiamo,
e lo ammiriamo così, ché quieto disdegna
di annientarci. Ogni angelo è tremendo.
    E così mi trattengo e serro in gola il richiamo
Dell’oscuro singulto.”  ( in traduzione da A. L. Giavotto Kunkler, in edizioni Einaudi al volume secondo delle “Poesie” curate da Baioni e Lavagetto ).
Il tremendo della bellezza compone una teoria della poetica entro cui anche contraddizioni di termini e di categorie e di sensibilità convergono ad una facoltosa unità che misericordiosamente tutto abbraccia e tutto converte – dal piombo all’oro, dalla notte al giorno, dalla nuvola alla pietra -, la capace espressione dell’immagine diventa la sequenza dei tempi nel tempo, così da curare nel tempo il luogo dell’immagine come visiva realtà del racconto. Presa nell’incantamento della pasta della pittura, delle terre macinate e impastate e dei lasciti dei tubetti lavorati tra colle e diluenti, Fernanda Mancini elabora la sua propria litania alla realtà invisibile del reale del mondo vissuto, mostrandoci per immagine la intimità del reale svolto nella fenomenologia del quotidiano e nella  condizione del tempo di durata percepito e inseguito. Pittura di pensiero filosofico e di realtà poetica, e di filosofia e di poesia riscontrabile nelle tracce edotte nella geografia culturale tra Germania e Italia, tra Parigi e Roma; per poter finalmente abbandonarsi dunque infine alla realtà della terra, della colla, del diluente, della carta, con la tela, fili di ferro, terrecotte, smalti e coprenti, velature di conservanti e di quanta altra strumentazione che dei materiali tutti rende edotta la giustizia della pratica artistica. Fernanda Mancini nella pratica artistica, nella materia delle pratiche artistiche, canta il proprio canto di ricerca filosofica e poetica, sicchè il fare si rende propenso alla analogia con il cantare e lo scrivere e l’ascoltare, il parlare, il pensare; Mancini rende nelle sue opere edotte le forme e i colori alla condizione geroglifica del fare le immagini in quanto fare la scrittura e fare di canto e del costruire il suono.
Assorbendo di stagione in stagione, ora Cavalieri Azzurri e Paladini dell’Alchimia, ora Surrealisti alla corte di Re Apollinaire; ora entrando ed uscendo dalle italiche compartecipate della Neoavanguardia europea; Fernanda Mancini si è educata ad una propria disciplina, ad una sua propria originale pratica di studio entro e dentro la compagine della realtà artistico culturale in questo versante dell’arte che si riferisce alle tradizioni delle Avanguardie Europee, tra inizi e fine del secolo Ventesimo, quali referenze da evocazione storica dentro un proprio originale percorso di studio e di abbandono alla felice messa in opera del proprio suo disegnare.   
La superficie del piano diventa campo magnetico del colore da dove ermeneuticamente prende corpo la figura e dunque la immagine che si proclama aspirando alla realtà dell’icona che ha valore di un assoluto spirituale; così in quanto anche a concludere, dell’artista il suo lavoro nella pratica d’arte, le realtà procedurali della condizione pareysoniana del suo, dell’arte, essere in un procedimento di formatività.
La carta e  la tela e il cartone e il foglio di terracotta, sono ora distesi su piano ora appesi al filo sospesi nell’aria a prendere il campo dello spazio attorno e con questo spazio attorno a dialogare e interagire come in una quasi azione performativa: sospeso filo scritto sul vuoto, sospeso e appeso sospiro dell’immagine cercata e non trovata, trovata a e non presa, in una “partita a tennis senza la palla” – docet Antonioni -.  Il supporto è oggettivamente necessario ma l’artista lo trasfigura e ne mette in scena una sorta di sacra rappresentazione dello “spaziotempo”: Fernanda Mancini esula il piano e ne intuisce la fantastica configurazione “tempo spaziale”. Il campo magnetico dell’archetipo nel profondo delle siderali realtà intimamente custodite da ciascun di noi, emerge dalla superficie come condizione del reale fenomenico ma avvampa e si infuoca nella immagine dettata dal figurare della elaborazione artistica. Foglio stretto e aperto, infinito nel finito, foglia e albero tutto intero: i rimandi incestuosi nella stanza dell’Atelier divagano da parete a parete innervando un enciclopedismo iconografico che chiama in causa “Orecchio” e “Vaso” nell’iconologia del recepire, là dove tra teologia e alchimia, effervescente da sopra un laico altare scaturisce l’azzurro di una Vergine Maria Immacolata.
La pratica artistica di Fernanda Mancini svolge con felice predisposizione una campionatura iconografica dettata dal rimando iconologico, secondo relazioni storiche e filosofiche e teologiche accertate non nella amministrazione scolastica bensì nella ispirata e seducente partecipazione emotiva, rispetto alle tematiche di cui per attenzioni e per sensibilità l’artista nelle sue opere sembra come sussurrare e mostrare così le tematiche ancestrali e le archetipicali conferenze partecipate a Berlino o a Monaco. Il pennello diluisce sazio scorribande di pennellate spaziali e diluiti cannelli di colore – “Trittico” con inchiostri e matite e acquarelli su carta Fabriano o su carta Cinese – ad organizzare pulsioni delle profondità della superficie come ad immergersi l’artista dentro le profondità dell’Essere. Acrilici e cere, inchiostri e matite: e crete su carta, ferri e piume di volatile, fotocopie.
I materiali si assoggettano alla struttura mentale del disegno. I materiali sono disposti sulla superficie come spazio solido, liquido, aereo: tutto tranne che supporto cartaceo o di tela. Gli elementi vengono a costituirsi quali realtà iconografiche a narrare il trasporto iconologico. Il basso profilo dell’orizzonte contrasta con l’arcuazione di linee volte al diapason del suono spaziale della piuma in alto: leggerezza dell’immagine e valore del volo e corpo vivo dell’aereo vociare del movimento come tra verticali ripetute e circonferenza impressa al volto della superficie. Ora una Croce e una parete, una realtà di luce e di ombra per attraversare le trasparenze dei tempi accumulati. Così la sfera e il cubo, ordinando il ricordo di Picasso in V° Elegia rilkiana, declama una geometria della significazione spaziotemporale. Sfera di segni e sfera di colore; così che la massa cromatica – rosso, il nero, il giallo – comporta l’idea del peso e delle profondità delle iconografie che convertono il loro mostrarsi in narrazioni di simbologie e di teologie e di filosofie antiche e contemporanee.
Ed ecco, dunque, la Croce che varia nella declinazione dei rimandi ancestrali, come che Mancini si produca a rileggere i perduti scritti guénouniani di un Oriente senza Orientalismo. E recuperi, invece, le fantastiche miniature della Catalogna dimenticata, della Firenze ancestrale; là dove ardisce ad unire scrittura – vera – a pittura – vera – così una poesia dimostra l’immagine e le coordinate spaziali diventano il crescere ordinato delle verità della Bellezza.
Carte in striscia minimalizzano le spazialità dell’incrocio tra verticale e orizzontale e il significante rosso detta la luce del sacrificio ripetuto. Così, similarmente, una “Croce Bizantina” si esalta nello smeriglio della pietra  levigata in sfera incastonata come preziosa Croce della spiritualità della ortodossia Greca raccontata nella trasparenza di uno ieratico significato del disegno perfetto. Grembo di Terra, grembo di scatola cranica della Terra a custodire e a far crescere ascolti siderali, profondissimi: grembo e orecchio, bocca e occhio; fessure e recipienti a custodire il fantasticare dell’accumulo, del raccontare, del poter felicemente nominare gli elementi della fenomenologia archetipale.
L’impiego del Vaso Alchemico impone in sintesi il fare Post Concettuale dell’artista. Ed ecco che fotocopie e pittura, immagine di fotografia e immagine dipinta vengono a mostrare la ricerca plurima della contaminazione critica dei materiali quali elementi della cosmologia alchemica. In alcune opere recenti la figura di intarsio e di composizione si aggrega come per una rappresentazione della messa in scena della sacralità del mondo in quanto Sacra Opera. Immagine articolata nella profondità delle iconologie tenute a bada nella legge delle simmetrie relazionate. La struttura dell’inconscio vive nella realtà dell’Opus, così nel Vaso persiste il Macinino duchampiano e vive e rivive, dunque, il rimando junghiano al Mandala e all’alchemico Vaso quale realtà della Anima, dunque ancora, Anima Mundi. Ma nelle opere di Fernanda Mancini non si evince un rubricare le iconografie anche di significato e valore  alchemico; si tratta in queste sue opere, invece, di realizzare l’icona della anima dell’icona medesima, così che l’immagine non rimanda ad altro che a se stessa, per poter raccogliere tutte le indicazioni e lasciare aperto altresì, così, le strade alla significazione, a ciascuno, del proprio viaggiare interiore.
In questo lavorare tra immagine dell’archetipo e realtà della emozione poetica all’interno di una continuamente sostenuta riflessione filosofica, Fernanda Mancini esprime nella sua opera la ricerca di una laicità della interiorizzazione compositiva che si sposa con la interiorità di una composizione religiosa che ha storicamente l’ardire di definirsi “Canone Divino” - così come dettato da Lenz  e Serusier nella incipit ancestrale della Beuronschule -  là dove tra le radici individuate dalle Storiche Avanguardie si è guardato con il diletto della soddisfatta aspirazione, come tra le altre esperienze storicamente individuate, ecco testimonia – ed è da Mancini risolta in una precisa sequenza di opere –  l’ “Esprit Nouveau” del “Modulor” lecourbusieriano.
Le felici compagini dei cicli delle opere in sequenza di Fernanda Mancini dimostrano delle sue opere il significato del mirabile dove la pittura acquista valore sapienziale, dove la poesia del tracciato informa l’emozione del colore come gettato nella semplicità propria di un gesto esperto, di un fare spontaneo. Materia come Madre e, dunque, ecco che le plurali disposizioni delle sequenze di rappresentazioni e di iconografie e di ricerche di pittura, nelle sue opere, sono da Fernanda Mancini condotte ad esprimersi nelle relazioni delle tradizioni e classicità compositive, come dal cubo/quadrato alla sfera/ cerchio dentro una piramide/ triangolo; e dove la sequenza dei racconti dei cicli che sono realizzati, giungono ad una unità di intenti e di confermata e realizzata opus, nella pratica artistica dove Fernanda Mancini fa confluire - e quindi dove sfociano e fa convergere -, i suoi percorsi nella ricercata unità dell’opera in quanto realtà della raffigurazione umana dal valore di religiosa immagine, quale laica e sacra rappresentazione figurale, in quanto della sapienza aspira a manifestarsi propriamente sua icona.    



                                  




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