venerdì 16 dicembre 2011

Melancholia di Lars von Trier  (Fernanda Mancini)


Film bellissimo, a cominciare dal prologo, che come in un inizio di sinfonia sintetizza i temi principali, "mette in scena" i punti essenziali, che la vicenda poi svilupperà, aiutando così la nostra attenzione a focalizzarsi da subito sui nodi che von Trier ritiene significanti, aiutando la nostra Stimmung a con-formarsi.
Una vera e propria messa in scena, perchè il ricorso alla letteratura visiva è grandissimo ed originale (non solo nel prologo). Ma soprattutto domina in questo inizio la potenza non della natura, ma del sublime nella natura, un convissuto riferimento kantiano, declinato sulla scala negativa di questo secolo e del precedente. Maestose invenzioni sceniche di mondi e di stelle, di fiumi acque volumi arborei e l'uomo, anzi la donna   presa dalla nella e per la natura, legata e stregata, invischiata e sapiente. Pezzo di natura essa stessa, in lotta con se stessa, il prezzo del suo sapere: la melancholia, fatta della materia di Saturno, che colpisce artisti e scienziati, come ci dice Duerer attraverso Panofski.
 Non resta che accettare, accogliere perchè qui è la forma possibile del sapere, il punto in cui vita e sapere sono uno. Niente si dimostra il sapere scientifico, tentativo di domare l'indomabile, piccola conchiglia per il mare troppo grande dell'universo, che conduce al niente, che non è quello della paura, bensì quello del ridicolo, dell'inconsistenza e del tradimento, una dichiarazione di fallimento che investe, a retrocedere, tutte le cellule del prima, da qui il ridicolo-patetico del marito di Claire, che si precipita nel suicidio.
Il rapporto tra le sorelle alla fine inverte il segno, e l'equilibrio di Claire, incapace di accogliere e di sapere, si affida  al più consapevole malessere di Justine, per salvare, nel ritorno dell'insignificanza umana alla prepotenza della natura, la dignità della fine e l'amore per sè, per la sorella per il figlio.

lunedì 12 dicembre 2011

Recensione mostra "lo Spazio le Cose i Frammenti" - Colonia

“Lo spazio le cose i frammenti” Recensione di  Juergen Kisters alla mostra di F.M. presso l'IIC di Colonia 2010

 Giovedì 18.3.2010   Kölner Stadt-Anzeiger




                     Anche gli Angeli sono disorientati

Fernanda Mancini presenta all’Istituto Italiano di Cultura il suo personalissimo linguaggio visivo

di Juergen Kisters


Tra la gigantesca quantità di immagini stimolanti e di temi che percorrono la nostra cultura post-moderna, spesso non sappiamo neppure più dove abbiamo la testa. Dati di fatto e possibilità sono quasi indistinguibili gli uni dalle altre. Tutto e niente sembrano trovarsi più vicini di quanto ci piacerebbe. E così ci domandiamo sempre di nuovo : che cosa è importante? e innanzitutto perché?
In mezzo a questa opacità che confonde, l’artista cerca di indicare un paio di temi che sono basilari. “Lo Spazio Le Cose Il Frammento. Sul Terreno del Sacro” si intitola la mostra dell’artista romana presso l’Istituto Italiano di Cultura di Colonia. Qui ci porta davanti agli occhi, attraverso numerosi lavori di  piccolo formato, un linguaggio visivo totalmente personale della enigmaticità.
Bolle di colore si accalcano verso l’interno o verso l’esterno. Figurine non più grandi di fili di capelli si aggirano tutto intorno come animaletti ciechi. Frammenti fotografici di oggetti ed elementi disegnati si intrecciano come a scontrarsi o insieme fluire. Le costruzioni astratte dell’avanguardia artistica del 20. secolo incontrano le forme arcaiche dei tempi originari, e le immagini di strutture scientifiche si trasmutano in fluido scambio con le forme fantastiche dell’inconscio.
Non da ultimo  l’insoddisfazione verso una scienza che si occupa  solo di concetti e parole ha portato l’artista, dopo lo studio della filosofia, alle arti visive. Nella poesia dei suoi collages disegnati, aspetti centrali dell’ontologia, dell’epistemologia e della fenomenologia sono chiamati a condurci oltre gli scarni concetti della filosofia verso un sapere che si fa plastico e chiaro. Giocosamente mostra con pochi tratti che cos’è lo spazio, una zona delimitata che crea un fuori ed un dentro, che può essere vasta o angusta e che stabilisce in modo determinato i movimenti degli uomini. Un paio di allusioni sfocate  su frammenti di fotografie ci fanno riconoscere le cose come elementi che portano ordine e senso nelle nostre vite. Basta un frammento e noi vediamo già l’intero. Tuttavia, lo stesso ordine delle cose non è irrevocabile, così come spingono all’unità, esse conservano anche in sé la tendenza ad andare in pezzi. Questa forza esplosiva è così affascinante quanto la legge che provenendo dal più profondo tiene insieme le cose e il mondo. Precisamente in questo punto l’arte di Fernanda Mancini conduce il sapere delle cose nella sfera del sacro, dove è di casa da sempre l’indescrivibile e l’incomprensibile.
E allora riconosciamo nei suoi quadri falci di luna, angeli disorientati, case rovesciate, mani che afferrano il vuoto, circonferenze, frecce, piante che crescono nel centro del mondo e tutto intorno ombre indeterminate. Qui dappresso cominciamo a sentire che tra i nostri sogni notturni e ciò che chiamiamo realtà non scorre alcun netto confine.

Istituto Italiano di Cultura do Colonia
Fino al 5.4.2010

martedì 11 ottobre 2011

F.M. " QUELLO CHE FA DI UN GIARDINO APPUNTO UN GIARDINO"


Riflessioni in margine alle tesi di Massimo Cacciari e Achille Bonito Oliva nel volume “Enciclopedia delle arti contemporanee. Il Tempo comico”, a cura di Achille Bonito Oliva, Electa, 2010

Nei manoscritti miniati soprattutto del tardo medioevo, la rappresentazione del giardino sta ad indicare:
un luogo di meditazione
una analogia del cosmo
il simbolo del giardino dell’Eden
(in genere) la cornice che accoglie le parole/immagini, parole “sacre” perché nascono nel giardino, perché sono pensate lì, in quel luogo che conferisce sacralità.

Mi piacerebbe realizzare un moderno tappeto-giardino,
ma questo progetto si scontra subito con la perdita di significato del soggetto tradizionale, ciò è dovuto alla sua funzione utilitaristica e ornamentale? Questa difficoltà mi induce a riflettere sul “giardino”, e innanzitutto sorge allora  la domanda: avvertiamo ancora il giardino come luogo sacro?
Se realizzo un giardino attuale, lo debbo semplificare, cioè togliere il superfluo, faccio allora un giardino in negativo fino ad ottenere un giardino che dice l’assenza del giardino. E per dirne l’assenza bisogna saperne al contempo la presenza, quello che fa di un giardino appunto un giardino. E qui, sia detto solo come inciso, le strade del creatore e del fruitore si dividono; di qui la scaturigine delle incomprensioni ma anche il ruolo pro-fetico, a-venire dell’arte.

Posso dunque creare un giardino moderno? Ed è esso  possibile solo come memento mori? Come giardino del non, ove non ci sia analogia con il cosmo, non ci sia simbolica dell’Eden, che non sia sacro, e soprattutto dove non ci sia meditazione?
                                                               
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Che cosa fa meditare noi moderni, noi uomini “attuali”? Su che cosa meditiamo? Quale luogo ci induce alla meditazione? La natura? Una chiesa?

Prima del tempo moderno, la natura era di tutti, mentre il giardino era per i ricchi, per i potenti, dunque per i pochi, era costoso e dunque raro. Attraverso la rarità e la ricchezza, si produceva uno “shock” meditativo e scattavano le analogie che permettevano di leggere la simbolica dei fiori, dell’ordine del giardino e di qui si affacciava alla mente il pensiero di un principio d’ordine in generale, che valeva per tutto ciò che circonda l’uomo e la terra e il cielo, ecc.

Kant prima e i romantici poi sostituiscono la funzione della  natura a quella del giardino. La natura fa nascere il sentimento del sublime, che è un “totalmente altro”, in cui dunque nessuna delle leggi che conosciamo vale. Il pensiero di un ordine, che era prima evocato dal giardino come analogo al pensiero d’ordine del cosmo, decade; ogni pensiero d’ordine sta per rivelarsi come solo umano.
La meditazione non può più essere suscitata dal giardino – e di fatto non lo è più. Kaspar Friedrich si immerge nei mari, negli alberi, nei boschi, ecc. Il disordine della natura selvaggia – che sfugge all’umano – è il suo luogo di meditazione. Ed è una meditazione sul totalmente altro, negazione di ciò che si conosce e degli strumenti conoscitivi, è una meditazione negativa, a togliere ciò che non è.

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In seguito, anche la natura si fa ambigua, perché a far data dall’ultima parte del secolo xix sappiamo che in essa è comunque in opera il nostro operare (intellettivo), in essa meditando, riflettiamo sulle conoscenze che di essa abbiamo. Con un unico residuo (ma di fondamentale importanza): la sua esistenza è indicibile, ma è. Qualcosa è, e anche se fosse tutto un sogno e non avessimo strumenti per distinguere il sogno dalla realtà, essa seppur come sogno (nostro) in sogno ci si opporrebbe, ci starebbe di contro, e il suo essere (il fatto della possibilità della sua esistenza), sfuggirebbe alla nostra coscienza e alla nostra autocoscienza.

La meditazione contemporanea ci porta a dire che qualcosa è, e l’arte contemporanea produce affermazioni d’essere, dice, ridice, torna a dire che qualcosa è.Quindi l’arte contemporanea, togliendo tutto ciò che non è, si trova a dire che “qualcosa è”.
Ci riesce?
Però, al di là della risposta a questa domanda, si deve sottolineare questo punto : che questo è il compito che l‘arte ha di fronte a sé, ciò che la sostanzia e la fa viva, oggi.
Che essa, nel suo affermare che qualcosa è, in forme e linguaggi e materiali sempre diversi, non è ripetizione dello stesso (concetto), ma indagine allargata, nel campo che le è proprio cioè quello del concreto, e nelle concrete/astratte forme di quello che più sopra abbiamo indicato come “residuo”. Dunque compito positivo. Non è ripetizione nichilistica, impossibilità a non contraddirsi, e dunque eterno “comico” sbattere la testa contro il proprio limite per tornare a sbatterci sempre di nuovo contro, come scrive Massimo Cacciari nella Introduzione alla “Enciclopedia dell’arte contemporanea. Il tempo comico”.
                                                              
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Non sappiamo, perché esula dalla nostra contemporaneità sapere, dove e come procederà l’arte (e la società, di cui essa è la punta indagante più avanzata) oltre questo punto, ma sappiamo che è positivamente in questo punto attestata, come giusto in chiusura della Post-fazione alla “Enciclopedia dell’arte contemporanea. Il Tempo comico”, butta lì Bonito Oliva, a scompaginare quanto appena e con convinzione aveva affermato nel segno di un nietzschianesimo nichilista, ed il suo respiro profetico è una luce più forte di ogni lanterna. “A conferma comunque di un tempo comico nel quale l’artista è un errore biologico rispetto all’opera che, malgrado il suo essere frammento, ha ben altre aspirazioni di durata. A conferma di un tempo comico”. Di nuovo nasce la domanda perché? Perché l’opera eccede l’artista che la crea?

Fernanda Mancini