FERNANDA MANCINI
LUOGHI E TEMPI DELLE ICONE
Mariano Apa
Nel corso
degli anni il ricercare nelle terre e nelle acque delle arti e il confabulare
con l’arte e il trovare dell’arte, han condotto Fernanda Mancini ad una sua
coerente e giustificata compagine critico estetica, pervenendo ad una felice
rappresentazione di uno spazio d’arte dove l’emozione conduce a maturità di
espressione la plurale disponibilità delle proprie intuizioni.
Non si tratta di rincorrere le quantificate cataste accumulate
dai calendari degli inquadramenti storico critici; si tratta per l’artista
nella propria coscienza di far maturare un disincanto che traduca la bonaccia
nichilista in frescura aurorale, là dove lo sguardo raccoglie i suoi tutti degli inizi. Ciascun artista ambisce alla identità della propria forma,
del linguaggio e dello stile, che dimostri il proprio vedere. Così Fernanda Mancini realizza uno scomparto di cicli
iconografico iconologici volti a definire, in una prospettiva di ampio respiro,
la qualità di una eccellenza che infine proclama nei propri lavori la propria
specifica unità.
Il lavoro è sostenuto da una solida impalcatura filosofica,
ma Mancini lascia sciogliere, al tempore delle colle calde e delle terre
macinate e impastate, i pericoli ideologici delle costrizioni figurativamente
programmate. Nell’abbandono all’imprevisto sorge in Mancini l’immagine che
permette all’artista di svolgere il proprio racconto e di affabulare lo
spartito di colori e rimandi ancestrali per evocazioni di colori e suoni
sussurrati o declamati, mai costretti e sempre liberati; per una pittura liberante che libera.
Affinando il pensare filosofico alla lettura di scritture “epico/
epocali” – da Rilke a Mann, ad esempio – Fernanda Mancini evita le domande
della tradizione concettualisticamente tautologica e si innerva per sentieri che, tra il trascorso
heideggeriano del sentiero interrotto
ed eventualmente anche comunque dove l’essere risulta del sentiero ritrovato, svelano l’intrico felice
dell’essere l’arte un Bosco Sacro
dove, se pur inconsciamente, si rincorrono le sapienze di Puvis de Chavannes o
i funambolici deliri misticheggianti di Joséphin Péladan; da cui i sali caldissimi
delle saune francesi, a Parigi in Estate, che nell’opera di Fernanda Mancini si
convertono nelle fredde stanze tedesche – con gli Inverni di Weimer e Munchen – dove
pensano e respirano Wolfgang Goethe e Franz
von Stuck: così che l’insieme della ricerca di Mancini sembra quasi come
pervenuta ad una sua originale riscrittura del rivisitato Wilhelm Meister.
Di là dalla burocratica referenza filosofica, il tema dei
racconti nelle opere di Fernanda Mancini si fanno carico del proprio ragionare
filosofico spurgando le pesantezze ideologie e aspirando alla leggerezza della
spiritualità, convenendo così alla trasparenza del beuysiano veltro dei piombi
tramutati in oro, secondo le indicazioni del pensiero alchemico che, più volte
spesso, non viene taciuto e non viene interiorizzato come nel genio di Duchamp dove
si proclama che l’unico modo di fare alchimia, era nel farla “senza saperlo”. Tra la consapevolezza
del conoscere e la genuina laica
santità del “non saperlo” scorre il
fiume dei calendari con cui “ci segnamo
la croce”. E rimane accertata quanto del praticare l’arte sia un tentativo,
riuscito ed anche non-riuscito, che a ciascun compete secondo la propria divina
grazia al confronto della propria sincerità; imponendosi costì la radicale e
leggerissima domanda che Rilke si poneva per porla a ciascun di noi:
“Chi, s’io gridassi,
mi udrebbe mai dalle sfere
degli angeli ? E se
pure d’un tratto
uno mi stringesse al suo cuore: perirei della sua
più forte esistenza. Poiché del terribile il bello
non è che il principio, che ancora noi sopportiamo,
e lo ammiriamo così, ché quieto disdegna
di annientarci. Ogni angelo è tremendo.
E così mi
trattengo e serro in gola il richiamo
Dell’oscuro singulto.” ( in traduzione da A. L. Giavotto Kunkler, in
edizioni Einaudi al volume secondo delle “Poesie” curate da Baioni e Lavagetto
).
Il tremendo della bellezza compone una teoria della poetica entro cui anche
contraddizioni di termini e di categorie e di sensibilità convergono ad una
facoltosa unità che misericordiosamente tutto abbraccia e tutto converte – dal
piombo all’oro, dalla notte al giorno, dalla nuvola alla pietra -, la capace
espressione dell’immagine diventa la sequenza dei tempi nel tempo, così da
curare nel tempo il luogo dell’immagine come visiva realtà del racconto. Presa
nell’incantamento della pasta della pittura, delle terre macinate e impastate e
dei lasciti dei tubetti lavorati tra colle e diluenti, Fernanda Mancini elabora
la sua propria litania alla realtà invisibile
del reale del mondo vissuto,
mostrandoci per immagine la intimità del reale svolto nella fenomenologia del
quotidiano e nella condizione del tempo di durata percepito e inseguito. Pittura
di pensiero filosofico e di realtà poetica, e di filosofia e di poesia riscontrabile
nelle tracce edotte nella geografia culturale tra Germania e Italia, tra Parigi
e Roma; per poter finalmente abbandonarsi dunque infine alla realtà della
terra, della colla, del diluente, della carta, con la tela, fili di ferro,
terrecotte, smalti e coprenti, velature di conservanti e di quanta altra
strumentazione che dei materiali tutti rende edotta la giustizia della pratica artistica. Fernanda Mancini
nella pratica artistica, nella
materia delle pratiche artistiche, canta il proprio canto di ricerca filosofica
e poetica, sicchè il fare si rende propenso alla analogia con il cantare e lo scrivere
e l’ascoltare, il parlare, il pensare; Mancini rende nelle sue opere edotte le
forme e i colori alla condizione geroglifica del fare le immagini in quanto
fare la scrittura e fare di canto e del costruire il suono.
Assorbendo di stagione in stagione, ora Cavalieri Azzurri e
Paladini dell’Alchimia, ora Surrealisti alla corte di Re Apollinaire; ora
entrando ed uscendo dalle italiche compartecipate della Neoavanguardia europea;
Fernanda Mancini si è educata ad una propria disciplina, ad una sua propria
originale pratica di studio entro e dentro la compagine della realtà artistico
culturale in questo versante dell’arte che si riferisce alle tradizioni delle
Avanguardie Europee, tra inizi e fine del secolo Ventesimo, quali referenze da
evocazione storica dentro un proprio originale percorso di studio e di
abbandono alla felice messa in opera del proprio suo disegnare.
La superficie del piano diventa campo magnetico del colore
da dove ermeneuticamente prende corpo la figura
e dunque la immagine che si proclama
aspirando alla realtà dell’icona che
ha valore di un assoluto spirituale; così in quanto anche a concludere,
dell’artista il suo lavoro nella pratica d’arte, le realtà procedurali della
condizione pareysoniana del suo, dell’arte, essere in un procedimento di formatività.
La carta e la tela e
il cartone e il foglio di terracotta, sono ora distesi su piano ora appesi al
filo sospesi nell’aria a prendere il campo dello spazio attorno e con questo
spazio attorno a dialogare e interagire come in una quasi azione performativa:
sospeso filo scritto sul vuoto, sospeso e appeso sospiro dell’immagine cercata
e non trovata, trovata a e non presa, in una “partita a tennis senza la palla”
– docet Antonioni -. Il supporto è oggettivamente necessario ma
l’artista lo trasfigura e ne mette in scena una sorta di sacra rappresentazione
dello “spaziotempo”: Fernanda Mancini esula il piano e ne intuisce la
fantastica configurazione “tempo spaziale”. Il campo magnetico dell’archetipo
nel profondo delle siderali realtà intimamente custodite da ciascun di noi,
emerge dalla superficie come condizione del reale fenomenico ma avvampa e si
infuoca nella immagine dettata dal figurare della elaborazione artistica.
Foglio stretto e aperto, infinito nel finito, foglia e albero tutto intero: i
rimandi incestuosi nella stanza dell’Atelier divagano da parete a parete
innervando un enciclopedismo iconografico che chiama in causa “Orecchio” e
“Vaso” nell’iconologia del recepire, là dove tra teologia e alchimia,
effervescente da sopra un laico altare scaturisce l’azzurro di una Vergine
Maria Immacolata.
La pratica artistica di Fernanda Mancini svolge con felice
predisposizione una campionatura iconografica dettata dal rimando iconologico,
secondo relazioni storiche e filosofiche e teologiche accertate non nella
amministrazione scolastica bensì nella ispirata e seducente partecipazione
emotiva, rispetto alle tematiche di cui per attenzioni e per sensibilità
l’artista nelle sue opere sembra come sussurrare e mostrare così le tematiche
ancestrali e le archetipicali conferenze partecipate a Berlino o a Monaco. Il
pennello diluisce sazio scorribande di pennellate spaziali e diluiti cannelli
di colore – “Trittico” con inchiostri e matite e acquarelli su carta Fabriano o
su carta Cinese – ad organizzare pulsioni delle profondità della superficie
come ad immergersi l’artista dentro le profondità dell’Essere. Acrilici e cere,
inchiostri e matite: e crete su carta, ferri e piume di volatile, fotocopie.
I materiali si assoggettano alla struttura mentale del
disegno. I materiali sono disposti sulla superficie come spazio solido,
liquido, aereo: tutto tranne che supporto cartaceo o di tela. Gli elementi
vengono a costituirsi quali realtà iconografiche a narrare il trasporto
iconologico. Il basso profilo dell’orizzonte contrasta con l’arcuazione di
linee volte al diapason del suono spaziale della piuma in alto: leggerezza
dell’immagine e valore del volo e corpo vivo dell’aereo vociare del movimento
come tra verticali ripetute e circonferenza impressa al volto della superficie.
Ora una Croce e una parete, una realtà di luce e di ombra per attraversare le
trasparenze dei tempi accumulati. Così la sfera e il cubo, ordinando il ricordo
di Picasso in V° Elegia rilkiana, declama una geometria della significazione
spaziotemporale. Sfera di segni e sfera di colore; così che la massa cromatica
– rosso, il nero, il giallo – comporta l’idea del peso e delle profondità delle
iconografie che convertono il loro mostrarsi in narrazioni di simbologie e di
teologie e di filosofie antiche e contemporanee.
Ed ecco, dunque, la Croce che varia nella declinazione dei
rimandi ancestrali, come che Mancini si produca a rileggere i perduti scritti guénouniani
di un Oriente senza Orientalismo. E recuperi, invece, le fantastiche miniature
della Catalogna dimenticata, della Firenze ancestrale; là dove ardisce ad unire
scrittura – vera – a pittura – vera – così una poesia dimostra l’immagine e le
coordinate spaziali diventano il crescere ordinato delle verità della Bellezza.
Carte in striscia minimalizzano le spazialità dell’incrocio
tra verticale e orizzontale e il significante rosso detta la luce del
sacrificio ripetuto. Così, similarmente, una “Croce Bizantina” si esalta nello
smeriglio della pietra levigata in sfera
incastonata come preziosa Croce della spiritualità della ortodossia Greca
raccontata nella trasparenza di uno ieratico significato del disegno perfetto. Grembo di Terra, grembo di
scatola cranica della Terra a custodire e a far crescere ascolti siderali,
profondissimi: grembo e orecchio, bocca e occhio; fessure e recipienti a
custodire il fantasticare dell’accumulo, del raccontare, del poter felicemente
nominare gli elementi della fenomenologia archetipale.
L’impiego del Vaso Alchemico impone in sintesi il fare Post
Concettuale dell’artista. Ed ecco che fotocopie e pittura, immagine di
fotografia e immagine dipinta vengono a mostrare la ricerca plurima della
contaminazione critica dei materiali quali elementi della cosmologia alchemica.
In alcune opere recenti la figura di intarsio e di composizione si aggrega come
per una rappresentazione della messa in scena della sacralità del mondo in
quanto Sacra Opera. Immagine
articolata nella profondità delle iconologie tenute a bada nella legge delle
simmetrie relazionate. La struttura dell’inconscio vive nella realtà dell’Opus,
così nel Vaso persiste il Macinino duchampiano e vive e rivive, dunque, il
rimando junghiano al Mandala e all’alchemico Vaso quale realtà della Anima,
dunque ancora, Anima Mundi. Ma nelle opere di Fernanda Mancini non si evince un
rubricare le iconografie anche di significato e valore alchemico; si tratta in queste sue opere,
invece, di realizzare l’icona della anima dell’icona medesima, così che l’immagine
non rimanda ad altro che a se stessa, per poter raccogliere tutte le
indicazioni e lasciare aperto altresì, così, le strade alla significazione, a ciascuno,
del proprio viaggiare interiore.
In questo lavorare tra immagine dell’archetipo e realtà
della emozione poetica all’interno di una continuamente sostenuta riflessione
filosofica, Fernanda Mancini esprime nella sua opera la ricerca di una laicità
della interiorizzazione compositiva che si sposa con la interiorità di una
composizione religiosa che ha storicamente l’ardire di definirsi “Canone Divino”
- così come dettato da Lenz e Serusier
nella incipit ancestrale della Beuronschule -
là dove tra le radici individuate dalle Storiche Avanguardie si è guardato
con il diletto della soddisfatta aspirazione, come tra le altre esperienze
storicamente individuate, ecco testimonia – ed è da Mancini risolta in una
precisa sequenza di opere – l’ “Esprit
Nouveau” del “Modulor” lecourbusieriano.
Le felici compagini dei cicli delle opere in sequenza di
Fernanda Mancini dimostrano delle sue opere il significato del mirabile dove la pittura acquista valore
sapienziale, dove la poesia del tracciato informa l’emozione del colore come
gettato nella semplicità propria di un gesto esperto, di un fare spontaneo. Materia come Madre e, dunque, ecco che le plurali disposizioni delle sequenze di
rappresentazioni e di iconografie e di ricerche di pittura, nelle sue opere,
sono da Fernanda Mancini condotte ad esprimersi nelle relazioni delle tradizioni
e classicità compositive, come dal cubo/quadrato alla sfera/ cerchio dentro una
piramide/ triangolo; e dove la sequenza dei racconti dei cicli che sono
realizzati, giungono ad una unità di intenti e di confermata e realizzata opus, nella pratica artistica dove Fernanda
Mancini fa confluire - e quindi dove sfociano e fa convergere -, i suoi
percorsi nella ricercata unità dell’opera in quanto realtà della raffigurazione
umana dal valore di religiosa immagine, quale laica e sacra rappresentazione
figurale, in quanto della sapienza aspira a manifestarsi propriamente sua icona.