Il Nostro Tempo
18 Ottobre 2013
| Mostra | Berlino ricorda con una grande retrospettiva la raffinata ed eclettica artista tedesca a cento anni dalla nascita
Meret Oppenheim:
dal sogno all’arte
Fernanda Mancini
nostro servizio da Berlino
Al Martin-Gropius-Bau di Berlino,
fino al 1° dicembre, si
può visitare la mostra «Meret Oppenheim. Retrospektive»,
organizzata per il centesimo anniversario della nascita dell’artista.
La Oppenheim nacque a Berlino nel 1913, il padre medico
di Amburgo, la madre, figlia d’arte, veniva da Basilea, la città
di Holbein, Boecklin, Nietzsche e Jung. Qui visse quasi sempre
la Oppenheim, alternandola, a partire dagli anni Cinquanta,
con il suo studio a Parigi. Muore, ormai famosa, nel 1985 pochi
giorni dopo aver inaugurato le mostre di Heidelberg, Stoccarda
e Basilea. «Non è facile essere un artista giovane. Se lavora al modo di un maestro già apprezzato, sia contemporaneo sia del passato, allora può arrivare con una certa rapidità al successo. Ma se parla un linguaggio nuovo e suo proprio, che nessuno capisce ancora, allora deve attendere molto prima di suscitare una qualche
eco. Ancora più difficile per una artista donna». Parole dirette
che lasciano il segno queste della Oppenheim, pronunciate nel
1975 in occasione del ritiro del premio conferitole dalla città di
Basilea. Ma, a differenziarsi dalla vulgata femminista, subito dopo però aggiunge che più che di uomini e donne si dovrebbe parlare di
«anima» e «animus», entrambi i sessi hanno una parte femminile,
l’anima, ed una maschile, l’animus, ma le proporzioni sono
squilibrate, e lì occorre lavorare per mettere ordine, meglio, per
riportare l’ordine andato perduto con la separazione dei sessi,
l’androgino originario si muove al fondo di tutto il lavoro della
Oppenheim.
L’artista ha avuto un successo mondiale folgorante con uno
dei suoi primi lavori, la tazza impellicciata «Colazione in Pelliccia
», perché fu comprata subito, nel 1936 dal Museum of Modern
Art di New York, e per le foto di Man Ray, del 1933, che la ritraggono, giovane androgino, tra gli ingranaggi di macchine per
stampa, ma occorre capire cosa significhi quella tazza nella vita
della Oppenheim, come sia arrivata a pensare una scultura del
genere, quali pensieri la conducevano nelle sue creazioni in
quel tempo.
La Oppenheim muove i suoi primi passi artistici nell’ambiente
del surrealismo grazie all’amicizia con lo scultore Alberto
Giacometti, compatriota svizzero conosciuto appena arrivata a
Parigi nel 1932, quando decide di interrompere gli studi e diventare
artista. Giacometti la introduce nel piccolo e rivoluzionario
gruppo di ribelli attorno a Breton, ma mentre questi si
volgevano, com’è noto a Freud (che peraltro non ne volle sapere,
a differenza di Lacan), la Oppenheim entra in contatto
con Jung. Una crisi col gruppo le fa ben presto preferire il ritorno
in Svizzera, decisione che, è consapevole, le permetterà una
maggiore libertà e autonomia dagli artisti surrealisti, più vecchi
e ben più noti di lei. E qui, per sollevarsi dalla depressione
va a consultare Jung, con cui il padre medico è in contatto. Da
allora e per tutta la vita annoterà i suoi sogni, poi da lei stessa
raccolti per la stampa, ma lo fa senza aggiungere commenti o
interpretazioni. Saranno la sua costante “musa ispiratrice”, sulle
tracce della propria indipendenza, della sua parte maschile
e di quell’androgino, per lei promessa e premessa di ogni
vera arte.
I colleghi surrealisti vogliono provocare e irritare. Il sogno è
l’altra faccia della realtà, la vena fantastica e destrutturante, l’apertura sull’inconscio che stravolge la normalità della vita, il
gesto che accosta l’inaccostabile. Le opere della Oppenheim
vogliono provocare ma non irritare, il sogno per lei non è qualcosa
che ruoti esclusivamente attorno alla sua persona, così
come l’inconscio, a cui lascia la porta aperta mentre lavora la
materia, non è il suo, privato inconscio personale, ma comune a
tutta l’umanità. Riferendosi alla propria arte la Oppenheim la definisce poetica.
Se fu surrealista, lo è stata suo genere, il riferimento al sogno
non fu mai didascalico, come a riferirsi ad una “natura” da riprodurre, e riproporre a nuovo Rinascimento, come quasi un
nuovo tipo di realismo o di soggettivismo. Il suo rapporto con il
sogno fu di altra materia sottile, intessuto di riferimenti culturali
che affondano in consolidate, nonché dimenticate radici. E
vengono alla mente gli anni Novanta dell’800, quando i Nabis,
così volle chiamarsi il gruppo internazionale di pittori che ruotava
attorno a Gauguin, tra Parigi e Pont-Aven, crearono nella pratica
e nella teoria i principi rivoluzionari di un’arte nuova, che
si rifaceva, reinventandole nella loro modernità, alle problematiche
artistiche e filosofiche della tradizione popolare, della tradizione
cristiana e dell’arte italiana di Fra’ Angelico, ma anche
ad un contemporaneo come il francese Théodore Gericault.
I Nabis si staccarono da realismo, naturalismo e impressionismo
per cercare il vero e spirituale significato delle cose, in
primo luogo sciogliendole, con le armi del pennello e dei colori,
dalle relazioni che intrattenevano con il mondo reale, già
Gauguin si affidava al sogno, e ancorava la scelta delle forme
e dei colori al suo io originario.
La strada era stata aperta a metà Ottocento dalle “corrispondenze”
di Baudelaire, a seguire Mallarmé e il circolo dei letterati che gravitavano attorno al Café Voltaire di Parigi. I Nabis a loro volta crearono una nuova estetica che ricompone la separazione tra natura e spirito, visibile e invisibile, un nuovo spazio sulla tela che non isola le cose, ma che le tesse tutte sulla superficie.
Percorrere le sale di questa mostra, strapiene dei lavori di una
vita, è un’esperienza unica. Non solamente per la forza immaginativa che emanano le opere e la molteplicità delle sue espressioni (collages, olii, matite, legni, bronzi, gioielli, stoffe, assemblaggi). È unica perché si entra in un mondo in cui valgono altre categorie logiche, altre leggi reggono realtà altrimenti invisibili. Si vede all’opera una fantasia metaforica, sempre pronta ad estraniare l’oggetto dal suo contesto per aprirgli le porte di insospettate corrispondenze, offrire immagini inaspettate in cui le
cose si trasformano l ’ una nell’altra, anzi sono una cosa
e l’altra. Come accade nei sogni, appunto, la cui realtà incontestabile non appartiene alle categorie della ragione.
Guardando le sue tele, ad esempio quelle che ritraggono le nuvole
(realizzate negli anni Settanta), o il tema ripreso lungo
tutta la vita di «Genoveffa» (per esempio nella scultura in legno
di donna con le mani spezzate del 1971), ci si rende conto
che lo stile della Oppenheim è iconico, altro evidente legame
con i Nabis, è l’immagine di un oggetto riconoscibile, che però
ha perduto ogni particolare non essenziale, su cui l’artista
ha condotto un procedimento di sintesi definitiva, direbbe il
pittore cattolico Maurice Denis (1870-1943), e che ora campeggia
sulla tela come una grande immagine simbolica, e non importa
se è di piccole dimensioni, come l’olio «Guerra e Pace»,
del 1943, maestosa e soffusa di sacralità. La natura mostra il
suo volto sacro, eterno, metaforicamente inserito in un ritorno
di corrispondenze: il suo volto invisibile. È lì con la forza
di un’idea, come per esempio in «Lo spirito del Giardino» del
1971, piccola scultura assemblata di legni a forma di pesce, ma
anche di albero e barca.
Tratto specifico della sua arte, sottolineato dall’artista in numerosi
scritti e interviste, fu la sensibilità per la unità degli opposti.
La vita e la morte per esempio, contemporaneamente presenti
nelle tele e sculture con immagini di farfalle, dove si vede la
trasformazione della vita nella morte e viceversa, entrambe a riunirsi nel concetto di trasformazione, passaggio. E così il bianco
«fantasma con telo di lino», del 1962, porta in sé dei bei frutti
tondi e vitali, o nel «Paradiso è sotto la Terra» l’olio del 1940 in
cui l’albero cresce a testa in giù verso il centro della terra. Nelle
numerose maschere, dipinte scolpite o assemblate che siano,
la Oppenheim fa risuonare l’eco delle parole tedesche Larve entlarven, maschera smascherare, e della parola «larva», che indica
l’insetto che di lì a poco diverrà farfalla. E così la maschera, altro
tema ricorrente nei lavori della Oppenheim, diviene simbolo
non dell’occultamento inteso dal romanticismo come velo di
maya che copre la realtà, ma della eguale natura di vita e morte.
«La morte», dice la Oppenheim, «è ancora vita». E l’universo vibra
di vita passata nel suo lato occulto, nascosto ma che è, sebbene
nella modalità del non visibile.
Nessun commento:
Posta un commento