Da Berlino
Roberto Giardina
I bambini pongono domande difficili: perché il cielo è azzurro, o perché cambia il colore dei capelli della mamma. I bambini svizzeri chiedono anche: come arrivano i buchi nel formaggio? E´, anzi era, un segreto dell´Emmenthal, il glorioso prodotto nazionale, insieme con gli orologi a cucù, come afferma sprezzante Orson Welles ne “Il terzo uomo”. I cattivi tedeschi, accusati da tutti o quasi in Europa di questi tempi, sono entrati in guerra anche con la vicina Svizzera: si sono messi a produrre un´imitazione dell´Emmenthal, naturalmente più economica, e stanno mandando in rovina i caseifici elvetici specializzati nei buchi, concentrati nella zona di Berna.
Negli anni Ottanta, la produzione del formaggio, certificato dalla AOC, che controlla l´origine e la qualità, arrivava a 57mila tonnellate, oggi nemmeno alla metà, appena 26mila. Anche l´esportazione è dimezzata. Un Emmethal autentico non può costare meno di due euro all´etto, sostengono gli svizzeri che lo producono ancora con metodi artigianali, preoccupati più della perfezione che dei costi. I tedeschi hanno “inventato” macchine modernissime che sfornano forme di Emmethal come alla catena di montaggio. Solo un caseificio nell´Allgäu produce 37mila tonnellate all´anno, più dell´intera Svizzera. E il formaggio con i buchi Made in Germany si compra con 50 cent. Non c´è concorrenza: i buongustai con i soldi sono una minoranza.
“Siamo noi i campioni mondiali del formaggio,” si vanta Björn Börgermann, portavoce della federazione dei caseifici tedeschi. Gli italiani con il loro parmigiano, i francesi con il camembert? Non possono stare all´altezza, almeno se si tiene conto delle tonnellate e del fatturato. La Germania produce due milioni e 200mila tonnellate all´anno, esattamente il doppio di noi, contro il milione e 800mila dei francesi e le 800mila tonnellate degli olandesi.
I tedeschi erano considerati i giapponesi d´Europa nell´Ottocento, cioè dei copioni. Il marchio Made in Germany fu voluto dagli inglesi proprio per indicare prodotti d´imitazione di mediocre o infima qualità. Negli anni è diventato un simbolo di successo, ma i tedeschi sono rimasti copioni. Si impongono sui mercati internazionali con i “nostri” formaggi. Producono 263mila tonnellate di mozzarella, che a volte con pudore chiamano motzarella. E 50mila tonnellate di parmigiano, parmesan. Tutto in regola, purché non aggiungano “reggiano”. Colpa nostra che ci siamo dimenticati di proteggere i nomi dei prodotti italici. E sfornano 136mila tonnellate di Emmenthal: gli svizzeri si arrabbiano? Non si possono brevettare i buchi, rispondono. Producono anche 36mila tonnellate di Camambert, e hanno inventato una specialità culinaria: palline del puzzolente formaggio francese panate e fritte, accompagnate da marmellata di ribes. Nell´euforia inventiva hanno creato un prodotto multinazionale: il cambozola, incesto tra il gorgonzola e il camembert. I clienti tedeschi, si lamentano a Berna, sono stati abituati da anni a consumare prodotti economici, dal gusto approssimativo, e non sanno più apprezzare un formaggio di qualità, anzi ne sono respinti. L´Emmenthal autentico ha troppi buchi, il gorgonzola nostrano ha troppo muffa, la mozzarella campana troppo morbida.
sabato 30 novembre 2013
giovedì 21 novembre 2013
scoenberg, die gluckliche hand (1908-1912) piccolo accompagnamento all'opera
schoenberg non gradiva l'etichetta di "musica espressionista" per questo suo lavoro. si tratta di un'opera che probabilmente rielabora temi come l'amore e l'abbandono e la morte, legati alla esperienza personale dell'autore.
un'opera sperimentale, che usa pariteticamente colore, luce, gestualità, come schoenberg scrive: " l'elemento determinante è che un processo spirituale, che nasce indubbiamente dall'azione, non si esprime soltanto attraverso gesti, movimento e musica, ma anche attraverso colori e luce; deve essere chiaro che i gesti, i colori e la luce vengono qui usati come suoni, ossia che con essi si fa musica". è di questi anni l'amicizia con Kandinskij, di cui mette in musica alcuni quadri (si trovano su youtube).
l'espressione "la mano felice" prende in considerazione la funzione della mano, in quanto appendice del corpo, di fare, di agire verso l'esterno ed in questo fare - di un interno che si rivolge, con il fare, all'esterno - sperimenta la felicità , scrive: "la felicità sulla punta delle dita: tu che hai in te l'ultraterreno, aneli a ciò che è terreno...?", ma è un processo complesso, giacché niente ristà, e l'appagamento- del fare - abbisogna di una espressione sempre rinnovantesi. così schoenberg chiude queste righe "una mano felice che cerca di afferrare ciò che non può non sfuggirle, quando essa lo tiene in pugno. una mano felice che non mantiene quel che promette!". in gioco c'è la stessa capacità creativa dell'artista, di ogni artista.
martedì 19 novembre 2013
roberto giardina dalla germania con amore "titolo di studio"
Titolo di studio
Da Berlino
Roberto Giardina
Come uccelli di malaugurio, in Europa si cercano i minimi segnali per sentenziare che anche la Germania è in crisi, a causa della rigida politica di Frau Angela. Sarà, ma intanto tutte le previsioni indicano che la macchina teutonica continua a tirare (più 1,7 nel 2014). E i disoccupati sono due milioni e 850mila, pari al 6,6 per cento, mai stati così pochi da quando è caduto il “muro”, quasi un quarto di secolo fa. E gli occupati non sono mai stati così tanti, dalla fine della guerra, appena meno di 42 milioni.
Il tasso di disoccupazione è sotto il 4 per cento nelle ricche regioni meridionali, la Baviera e il Baden-Würrtemberg. Siamo quasi alla piena occupazione, dicono a Monaco, molti di quelli che sono a spasso semplicemente non vogliono lavorare. O sanno far poco o niente, come una parte considerevole dei disoccupati nazionali. E´ sempre più arduo reinserire i disoccupati: nel 2011 erano diminuiti di 140mila unità, l´anno scorso di 97mila. I disoccupati a lungo termine sono aumentati di 26 mila a quota un milione e 4mila. E per molti di loro c´è il pericolo di scivolare nell´Hartz IV, come viene chiamato il sistema di assistenza sociale. Invece di ricevere l´assegno di disoccupazione, avranno 391 euro al mese, il minimo vitale, più l´alloggio e tutte le spese relative. Gli assistiti sono circa 7 milioni, e costano oltre 50 miliardi di euro all´anno.
Un giudizio che sembra dar ragione al nostro ministro Giovannini che accusa gli italiani senza lavoro di essere ignoranti, soprattutto i giovani, in base all´indagine Ocse che ci vede all´ultimo posto su 24 per la capacità di comprendere, e al penultimo in matematica. Ma non è così. Rispetto a dieci anni fa abbiamo perduto una mezza dozzina di posizioni, e i tedeschi che erano solo un posto avanti a noi, sono balzati all´undicesimo. Loro si sono preoccupati, noi abbiamo fatto finta di niente. Non sarà colpa dei politici come Giovannini?
In effetti, in Germania, i disoccupati con un diploma, o con un corso di qualificazione alle spalle, sono di meno, il 5,4 per cento, e soprattutto non sono sempre gli stessi. Perdono il posto per una crisi di settore, o per il fallimento della loro azienda, ma lo ritrovano abbastanza presto. I disoccupati con una laurea sono ancora di meno, il 2,4 per cento. Per loro la situazione è in effetti più difficile. Più si è qualificati e più e difficile trovare un posto all´altezza.
I disoccupati giovani sono meno del 7 per cento, una percentuale invidiata da tutta Europa. Noi abbiamo superato il 40 per cento. Non è merito dei ragazzi tedeschi meno ignoranti, ma del sistema di istruzione “duale”. In estrema sintesi, gli studenti non vengono lasciati in balia di se stessi. Si cerca di guidarli nella scelta di una facoltà, o di un mestiere. Soprattutto non si divide lo studio dal lavoro. Il giovane svolge un´attività pratica che gli consentirà di avere già un minimo di esperienza al momento della ricerca di un posto.
E´difficile che un giovane si laurei in filosofia o in lettere a 30 anni, e poi si limiti a mandare in giro richieste di lavoro. Non tutti possono diventare professori, così ad esempio, chi studia spagnolo seguirà almeno anche un semestre d´economia. Un domani potrà essere assunto dalla Mercedes per una sua filiale in Sud America: non sa come si producono le auto ma conoscerà l´ economia, la storia, la società in cui si trova a operare. Oppure si insegna a compilare un testo pubblicitario. I più bravi, secondo le agenzie, sono proprio i laureati in filosofia, perché sanno usare le parole. Perché non imitare la Germania? Sono riforme che costerebbero poco, ma richiedono una mentalità diversa. Più semplice incolpare i giovani che si ritrovano una laurea breve in tasca, che non serve a niente, dopo tre anni buttati via all´Università.
domenica 17 novembre 2013
dalla germania con amore di roberto giardina
Gli affari del take awayDa BerlinoRoberto Giardina
Il take away è un gigantesco affare in Germania: un fatturato di 23 miliardi di euro l´anno scorso, un decimo della somma complessiva spesa per i generi alimentari. Da noi è una vecchia abitudine: per colazione un cappuccino e un cornetto al bar, a mezzogiorno una fetta di pizza, o un paio di suppli, o un panino, ma per i tedeschi è relativamente nuovo. Per tradizione, il pasto più importante è la prima colazione, che i genitori fanno seduti a tavola insieme con i figli: non solo caffè, ma spremute di frutta, salumi, formaggi, yogurth. A mezzogiorno si pranza nella mensa aziendale, alla sera al ritorno a casa c`è l´Abendbrot, letteralmente il pane della sera, ancora un pasto freddo, salumi e formaggio. Di fatto, nelle case tedesche si cucina solo al week end.Le abitudini sono cambiate rapidamente. Al mattino non si ha più tempo per una colazione classica, e si imita gli italiani, o quasi. Niente croissant, ma un bicchierone di plastico colmo di macedonia di frutta, e un caffè. A pranzo, tutti quelli che non lavorano in una grande azienda si precipitano fuori, non c´è tempo, e si mangia in fretta. La pizza al taglio è una conquista recente. Di solito si va dal chiosco di würstel, a divorare una polpetta o un salsiccia con patatine. Chi pensa al colesterolo. La sera si comincia ad uscire fuori, per una cena in pizzeria, o dal greco, o dal turco sotto casa. E, sempre più di frequente, si consuma davanti alla tv un cibo take away preso tornando dall´ufficio.Il mercato non poteva restare in mano ai gestori dei chioschi, quasi tutti stranieri, ed è stato scoperto e invaso dalla grande distribuzione. In un supermarket della Rewe, a Düsseldorf, è stato aperto da tre settimane un reparto riservato alla gastronomia pronta, un self service con specialità già confezionate. Un “Lunchbox”, come viene chiamato, costa sui 5 euro, verdura alla griglia, una fetta di roastbeef, o un riso con curry. E tutta una verità di pizze e di spaghetti o lasagne già pronte. Una buona posizion e occupano i giapponesi con il sushi, i tedeschi sono convinti che il pesce crudo faccia bene alla salute. Un pasto da consumare alla scrivania in ufficio. Il prezzo sembra modesto, di rado arriva a sette euro, ma le materie prime sono molto economiche, e la confezione è poco costosa. E si punta nella pubblicità sulla garanzia che si tratta di un cibo sano, poco calorico, e non pericoloso per le arterie.I piatti pronti sono offerti dalle panetterie, con varianti sempre più numerose, e dalle stazioni servizio cittadine. La Kamps, catena di panetterie, sta rinnovando i suoi negozi, con tavoli, banconi di esposizione, un settore per le bevande. Si guadagna di più con i cibi pronti che con panini e baguette.Sono nate società per rifornire i punti vendita con una gamma molto ampia di varietà, i cibi turchi insieme con la paella, pizza e würstel. I singoli non hanno la capacità e la possibilità di preparare i pasti da asporto, e si riforniscono dai grandi distributori, una qualità media è garantita, e il prezzo diminuisce. La “Lekkerhand” rifornisce circa 10mila chioschi e migliaia di stazioni di servizio, e dispone di una flotta di settecento camion frigoriferi, continuamente in giro dall´alba al tardo pomeriggio. Sul mercato tedesco è giunta da un anno l´olandese “Ahold”, che è la prima nel settore in patria. Lo stile è diverso: si preferiscono locali non più grandi di cento mq., con un´atmosfera quasi casalinga, più calda e rustica
sabato 9 novembre 2013
Il Nostro Tempo
18 Ottobre 2013
| Mostra | Berlino ricorda con una grande retrospettiva la raffinata ed eclettica artista tedesca a cento anni dalla nascita
Meret Oppenheim:
dal sogno all’arte
Fernanda Mancini
nostro servizio da Berlino
Al Martin-Gropius-Bau di Berlino,
fino al 1° dicembre, si
può visitare la mostra «Meret Oppenheim. Retrospektive»,
organizzata per il centesimo anniversario della nascita dell’artista.
La Oppenheim nacque a Berlino nel 1913, il padre medico
di Amburgo, la madre, figlia d’arte, veniva da Basilea, la città
di Holbein, Boecklin, Nietzsche e Jung. Qui visse quasi sempre
la Oppenheim, alternandola, a partire dagli anni Cinquanta,
con il suo studio a Parigi. Muore, ormai famosa, nel 1985 pochi
giorni dopo aver inaugurato le mostre di Heidelberg, Stoccarda
e Basilea. «Non è facile essere un artista giovane. Se lavora al modo di un maestro già apprezzato, sia contemporaneo sia del passato, allora può arrivare con una certa rapidità al successo. Ma se parla un linguaggio nuovo e suo proprio, che nessuno capisce ancora, allora deve attendere molto prima di suscitare una qualche
eco. Ancora più difficile per una artista donna». Parole dirette
che lasciano il segno queste della Oppenheim, pronunciate nel
1975 in occasione del ritiro del premio conferitole dalla città di
Basilea. Ma, a differenziarsi dalla vulgata femminista, subito dopo però aggiunge che più che di uomini e donne si dovrebbe parlare di
«anima» e «animus», entrambi i sessi hanno una parte femminile,
l’anima, ed una maschile, l’animus, ma le proporzioni sono
squilibrate, e lì occorre lavorare per mettere ordine, meglio, per
riportare l’ordine andato perduto con la separazione dei sessi,
l’androgino originario si muove al fondo di tutto il lavoro della
Oppenheim.
L’artista ha avuto un successo mondiale folgorante con uno
dei suoi primi lavori, la tazza impellicciata «Colazione in Pelliccia
», perché fu comprata subito, nel 1936 dal Museum of Modern
Art di New York, e per le foto di Man Ray, del 1933, che la ritraggono, giovane androgino, tra gli ingranaggi di macchine per
stampa, ma occorre capire cosa significhi quella tazza nella vita
della Oppenheim, come sia arrivata a pensare una scultura del
genere, quali pensieri la conducevano nelle sue creazioni in
quel tempo.
La Oppenheim muove i suoi primi passi artistici nell’ambiente
del surrealismo grazie all’amicizia con lo scultore Alberto
Giacometti, compatriota svizzero conosciuto appena arrivata a
Parigi nel 1932, quando decide di interrompere gli studi e diventare
artista. Giacometti la introduce nel piccolo e rivoluzionario
gruppo di ribelli attorno a Breton, ma mentre questi si
volgevano, com’è noto a Freud (che peraltro non ne volle sapere,
a differenza di Lacan), la Oppenheim entra in contatto
con Jung. Una crisi col gruppo le fa ben presto preferire il ritorno
in Svizzera, decisione che, è consapevole, le permetterà una
maggiore libertà e autonomia dagli artisti surrealisti, più vecchi
e ben più noti di lei. E qui, per sollevarsi dalla depressione
va a consultare Jung, con cui il padre medico è in contatto. Da
allora e per tutta la vita annoterà i suoi sogni, poi da lei stessa
raccolti per la stampa, ma lo fa senza aggiungere commenti o
interpretazioni. Saranno la sua costante “musa ispiratrice”, sulle
tracce della propria indipendenza, della sua parte maschile
e di quell’androgino, per lei promessa e premessa di ogni
vera arte.
I colleghi surrealisti vogliono provocare e irritare. Il sogno è
l’altra faccia della realtà, la vena fantastica e destrutturante, l’apertura sull’inconscio che stravolge la normalità della vita, il
gesto che accosta l’inaccostabile. Le opere della Oppenheim
vogliono provocare ma non irritare, il sogno per lei non è qualcosa
che ruoti esclusivamente attorno alla sua persona, così
come l’inconscio, a cui lascia la porta aperta mentre lavora la
materia, non è il suo, privato inconscio personale, ma comune a
tutta l’umanità. Riferendosi alla propria arte la Oppenheim la definisce poetica.
Se fu surrealista, lo è stata suo genere, il riferimento al sogno
non fu mai didascalico, come a riferirsi ad una “natura” da riprodurre, e riproporre a nuovo Rinascimento, come quasi un
nuovo tipo di realismo o di soggettivismo. Il suo rapporto con il
sogno fu di altra materia sottile, intessuto di riferimenti culturali
che affondano in consolidate, nonché dimenticate radici. E
vengono alla mente gli anni Novanta dell’800, quando i Nabis,
così volle chiamarsi il gruppo internazionale di pittori che ruotava
attorno a Gauguin, tra Parigi e Pont-Aven, crearono nella pratica
e nella teoria i principi rivoluzionari di un’arte nuova, che
si rifaceva, reinventandole nella loro modernità, alle problematiche
artistiche e filosofiche della tradizione popolare, della tradizione
cristiana e dell’arte italiana di Fra’ Angelico, ma anche
ad un contemporaneo come il francese Théodore Gericault.
I Nabis si staccarono da realismo, naturalismo e impressionismo
per cercare il vero e spirituale significato delle cose, in
primo luogo sciogliendole, con le armi del pennello e dei colori,
dalle relazioni che intrattenevano con il mondo reale, già
Gauguin si affidava al sogno, e ancorava la scelta delle forme
e dei colori al suo io originario.
La strada era stata aperta a metà Ottocento dalle “corrispondenze”
di Baudelaire, a seguire Mallarmé e il circolo dei letterati che gravitavano attorno al Café Voltaire di Parigi. I Nabis a loro volta crearono una nuova estetica che ricompone la separazione tra natura e spirito, visibile e invisibile, un nuovo spazio sulla tela che non isola le cose, ma che le tesse tutte sulla superficie.
Percorrere le sale di questa mostra, strapiene dei lavori di una
vita, è un’esperienza unica. Non solamente per la forza immaginativa che emanano le opere e la molteplicità delle sue espressioni (collages, olii, matite, legni, bronzi, gioielli, stoffe, assemblaggi). È unica perché si entra in un mondo in cui valgono altre categorie logiche, altre leggi reggono realtà altrimenti invisibili. Si vede all’opera una fantasia metaforica, sempre pronta ad estraniare l’oggetto dal suo contesto per aprirgli le porte di insospettate corrispondenze, offrire immagini inaspettate in cui le
cose si trasformano l ’ una nell’altra, anzi sono una cosa
e l’altra. Come accade nei sogni, appunto, la cui realtà incontestabile non appartiene alle categorie della ragione.
Guardando le sue tele, ad esempio quelle che ritraggono le nuvole
(realizzate negli anni Settanta), o il tema ripreso lungo
tutta la vita di «Genoveffa» (per esempio nella scultura in legno
di donna con le mani spezzate del 1971), ci si rende conto
che lo stile della Oppenheim è iconico, altro evidente legame
con i Nabis, è l’immagine di un oggetto riconoscibile, che però
ha perduto ogni particolare non essenziale, su cui l’artista
ha condotto un procedimento di sintesi definitiva, direbbe il
pittore cattolico Maurice Denis (1870-1943), e che ora campeggia
sulla tela come una grande immagine simbolica, e non importa
se è di piccole dimensioni, come l’olio «Guerra e Pace»,
del 1943, maestosa e soffusa di sacralità. La natura mostra il
suo volto sacro, eterno, metaforicamente inserito in un ritorno
di corrispondenze: il suo volto invisibile. È lì con la forza
di un’idea, come per esempio in «Lo spirito del Giardino» del
1971, piccola scultura assemblata di legni a forma di pesce, ma
anche di albero e barca.
Tratto specifico della sua arte, sottolineato dall’artista in numerosi
scritti e interviste, fu la sensibilità per la unità degli opposti.
La vita e la morte per esempio, contemporaneamente presenti
nelle tele e sculture con immagini di farfalle, dove si vede la
trasformazione della vita nella morte e viceversa, entrambe a riunirsi nel concetto di trasformazione, passaggio. E così il bianco
«fantasma con telo di lino», del 1962, porta in sé dei bei frutti
tondi e vitali, o nel «Paradiso è sotto la Terra» l’olio del 1940 in
cui l’albero cresce a testa in giù verso il centro della terra. Nelle
numerose maschere, dipinte scolpite o assemblate che siano,
la Oppenheim fa risuonare l’eco delle parole tedesche Larve entlarven, maschera smascherare, e della parola «larva», che indica
l’insetto che di lì a poco diverrà farfalla. E così la maschera, altro
tema ricorrente nei lavori della Oppenheim, diviene simbolo
non dell’occultamento inteso dal romanticismo come velo di
maya che copre la realtà, ma della eguale natura di vita e morte.
«La morte», dice la Oppenheim, «è ancora vita». E l’universo vibra
di vita passata nel suo lato occulto, nascosto ma che è, sebbene
nella modalità del non visibile.
18 Ottobre 2013
| Mostra | Berlino ricorda con una grande retrospettiva la raffinata ed eclettica artista tedesca a cento anni dalla nascita
Meret Oppenheim:
dal sogno all’arte
Fernanda Mancini
nostro servizio da Berlino
Al Martin-Gropius-Bau di Berlino,
fino al 1° dicembre, si
può visitare la mostra «Meret Oppenheim. Retrospektive»,
organizzata per il centesimo anniversario della nascita dell’artista.
La Oppenheim nacque a Berlino nel 1913, il padre medico
di Amburgo, la madre, figlia d’arte, veniva da Basilea, la città
di Holbein, Boecklin, Nietzsche e Jung. Qui visse quasi sempre
la Oppenheim, alternandola, a partire dagli anni Cinquanta,
con il suo studio a Parigi. Muore, ormai famosa, nel 1985 pochi
giorni dopo aver inaugurato le mostre di Heidelberg, Stoccarda
e Basilea. «Non è facile essere un artista giovane. Se lavora al modo di un maestro già apprezzato, sia contemporaneo sia del passato, allora può arrivare con una certa rapidità al successo. Ma se parla un linguaggio nuovo e suo proprio, che nessuno capisce ancora, allora deve attendere molto prima di suscitare una qualche
eco. Ancora più difficile per una artista donna». Parole dirette
che lasciano il segno queste della Oppenheim, pronunciate nel
1975 in occasione del ritiro del premio conferitole dalla città di
Basilea. Ma, a differenziarsi dalla vulgata femminista, subito dopo però aggiunge che più che di uomini e donne si dovrebbe parlare di
«anima» e «animus», entrambi i sessi hanno una parte femminile,
l’anima, ed una maschile, l’animus, ma le proporzioni sono
squilibrate, e lì occorre lavorare per mettere ordine, meglio, per
riportare l’ordine andato perduto con la separazione dei sessi,
l’androgino originario si muove al fondo di tutto il lavoro della
Oppenheim.
L’artista ha avuto un successo mondiale folgorante con uno
dei suoi primi lavori, la tazza impellicciata «Colazione in Pelliccia
», perché fu comprata subito, nel 1936 dal Museum of Modern
Art di New York, e per le foto di Man Ray, del 1933, che la ritraggono, giovane androgino, tra gli ingranaggi di macchine per
stampa, ma occorre capire cosa significhi quella tazza nella vita
della Oppenheim, come sia arrivata a pensare una scultura del
genere, quali pensieri la conducevano nelle sue creazioni in
quel tempo.
La Oppenheim muove i suoi primi passi artistici nell’ambiente
del surrealismo grazie all’amicizia con lo scultore Alberto
Giacometti, compatriota svizzero conosciuto appena arrivata a
Parigi nel 1932, quando decide di interrompere gli studi e diventare
artista. Giacometti la introduce nel piccolo e rivoluzionario
gruppo di ribelli attorno a Breton, ma mentre questi si
volgevano, com’è noto a Freud (che peraltro non ne volle sapere,
a differenza di Lacan), la Oppenheim entra in contatto
con Jung. Una crisi col gruppo le fa ben presto preferire il ritorno
in Svizzera, decisione che, è consapevole, le permetterà una
maggiore libertà e autonomia dagli artisti surrealisti, più vecchi
e ben più noti di lei. E qui, per sollevarsi dalla depressione
va a consultare Jung, con cui il padre medico è in contatto. Da
allora e per tutta la vita annoterà i suoi sogni, poi da lei stessa
raccolti per la stampa, ma lo fa senza aggiungere commenti o
interpretazioni. Saranno la sua costante “musa ispiratrice”, sulle
tracce della propria indipendenza, della sua parte maschile
e di quell’androgino, per lei promessa e premessa di ogni
vera arte.
I colleghi surrealisti vogliono provocare e irritare. Il sogno è
l’altra faccia della realtà, la vena fantastica e destrutturante, l’apertura sull’inconscio che stravolge la normalità della vita, il
gesto che accosta l’inaccostabile. Le opere della Oppenheim
vogliono provocare ma non irritare, il sogno per lei non è qualcosa
che ruoti esclusivamente attorno alla sua persona, così
come l’inconscio, a cui lascia la porta aperta mentre lavora la
materia, non è il suo, privato inconscio personale, ma comune a
tutta l’umanità. Riferendosi alla propria arte la Oppenheim la definisce poetica.
Se fu surrealista, lo è stata suo genere, il riferimento al sogno
non fu mai didascalico, come a riferirsi ad una “natura” da riprodurre, e riproporre a nuovo Rinascimento, come quasi un
nuovo tipo di realismo o di soggettivismo. Il suo rapporto con il
sogno fu di altra materia sottile, intessuto di riferimenti culturali
che affondano in consolidate, nonché dimenticate radici. E
vengono alla mente gli anni Novanta dell’800, quando i Nabis,
così volle chiamarsi il gruppo internazionale di pittori che ruotava
attorno a Gauguin, tra Parigi e Pont-Aven, crearono nella pratica
e nella teoria i principi rivoluzionari di un’arte nuova, che
si rifaceva, reinventandole nella loro modernità, alle problematiche
artistiche e filosofiche della tradizione popolare, della tradizione
cristiana e dell’arte italiana di Fra’ Angelico, ma anche
ad un contemporaneo come il francese Théodore Gericault.
I Nabis si staccarono da realismo, naturalismo e impressionismo
per cercare il vero e spirituale significato delle cose, in
primo luogo sciogliendole, con le armi del pennello e dei colori,
dalle relazioni che intrattenevano con il mondo reale, già
Gauguin si affidava al sogno, e ancorava la scelta delle forme
e dei colori al suo io originario.
La strada era stata aperta a metà Ottocento dalle “corrispondenze”
di Baudelaire, a seguire Mallarmé e il circolo dei letterati che gravitavano attorno al Café Voltaire di Parigi. I Nabis a loro volta crearono una nuova estetica che ricompone la separazione tra natura e spirito, visibile e invisibile, un nuovo spazio sulla tela che non isola le cose, ma che le tesse tutte sulla superficie.
Percorrere le sale di questa mostra, strapiene dei lavori di una
vita, è un’esperienza unica. Non solamente per la forza immaginativa che emanano le opere e la molteplicità delle sue espressioni (collages, olii, matite, legni, bronzi, gioielli, stoffe, assemblaggi). È unica perché si entra in un mondo in cui valgono altre categorie logiche, altre leggi reggono realtà altrimenti invisibili. Si vede all’opera una fantasia metaforica, sempre pronta ad estraniare l’oggetto dal suo contesto per aprirgli le porte di insospettate corrispondenze, offrire immagini inaspettate in cui le
cose si trasformano l ’ una nell’altra, anzi sono una cosa
e l’altra. Come accade nei sogni, appunto, la cui realtà incontestabile non appartiene alle categorie della ragione.
Guardando le sue tele, ad esempio quelle che ritraggono le nuvole
(realizzate negli anni Settanta), o il tema ripreso lungo
tutta la vita di «Genoveffa» (per esempio nella scultura in legno
di donna con le mani spezzate del 1971), ci si rende conto
che lo stile della Oppenheim è iconico, altro evidente legame
con i Nabis, è l’immagine di un oggetto riconoscibile, che però
ha perduto ogni particolare non essenziale, su cui l’artista
ha condotto un procedimento di sintesi definitiva, direbbe il
pittore cattolico Maurice Denis (1870-1943), e che ora campeggia
sulla tela come una grande immagine simbolica, e non importa
se è di piccole dimensioni, come l’olio «Guerra e Pace»,
del 1943, maestosa e soffusa di sacralità. La natura mostra il
suo volto sacro, eterno, metaforicamente inserito in un ritorno
di corrispondenze: il suo volto invisibile. È lì con la forza
di un’idea, come per esempio in «Lo spirito del Giardino» del
1971, piccola scultura assemblata di legni a forma di pesce, ma
anche di albero e barca.
Tratto specifico della sua arte, sottolineato dall’artista in numerosi
scritti e interviste, fu la sensibilità per la unità degli opposti.
La vita e la morte per esempio, contemporaneamente presenti
nelle tele e sculture con immagini di farfalle, dove si vede la
trasformazione della vita nella morte e viceversa, entrambe a riunirsi nel concetto di trasformazione, passaggio. E così il bianco
«fantasma con telo di lino», del 1962, porta in sé dei bei frutti
tondi e vitali, o nel «Paradiso è sotto la Terra» l’olio del 1940 in
cui l’albero cresce a testa in giù verso il centro della terra. Nelle
numerose maschere, dipinte scolpite o assemblate che siano,
la Oppenheim fa risuonare l’eco delle parole tedesche Larve entlarven, maschera smascherare, e della parola «larva», che indica
l’insetto che di lì a poco diverrà farfalla. E così la maschera, altro
tema ricorrente nei lavori della Oppenheim, diviene simbolo
non dell’occultamento inteso dal romanticismo come velo di
maya che copre la realtà, ma della eguale natura di vita e morte.
«La morte», dice la Oppenheim, «è ancora vita». E l’universo vibra
di vita passata nel suo lato occulto, nascosto ma che è, sebbene
nella modalità del non visibile.
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