ll filo rosso della Creazione
Le immagini si sono concretizzate all’occhio della mente
mentre leggevo alcuni passaggi del Timeo di Platone, quelli in cui il filosofo
descrive la creazione del cosmo e della sua anima. Il Timeo è un libro in molta parte
pitagorico, raccoglie il sapere di Pitagora erede anche della Grecia arcaica, quella dei filosofi sovrumani, come li chiamò Giorgio Colli, che a partire da loro ripensò la filosofia occidentale.
Il linguaggio di Platone è mitologico, immaginifico, e il suo sguardo è lucidamente scientifico. Attraverso il mito ci svela il
segreto del mondo e della sua visione.
Il dio - narra Platone - creò separatamente il corpo del tutto
e quello dell’anima, dell’uno e dell’altro fece due matasse che poi impastò
insieme, in modo tale da ottenere un’unica grande matassa omogenea formata
dagli stessi elementi (Fig.1). In seguito pensò di dividere l’impasto secondo
certe proporzioni e quantità derivate dal ritmo e dalla musica, allora protuberanze
cominciarono a formarsi dalla grande matassa e pian piano presero a staccarsi e
a circolare ciascuna per proprio conto nello spazio, secondo il posto appropriato
(geeignet) alle loro qualità e quantità (Fig.2), sicché non ci fu particella
corporea che non avesse anima e non ci fu anima che non avesse corpo: Tutto era
colmo di cose e rapporti reciproci, collegamenti e rispecchiamenti, dalle
stelle ai movimenti dei cieli, dai minerali alle piante all’uomo. La vita era ovunque, nelle pietre, nei cieli,
in tutti gli elementi e in tutte le cose, un filo rosso attraversava ogni cosa.
Secoli dopo Serveto scriverà che lo Spirito di Dio si
materializza costantemente e con ciò la materia si spiritualizza: Cristo
testimonia rappresenta e attivizza in ciascun uomo la coscienza atta a cogliere
ciò (dal saggio di Daniela Boccassini La luce interiore, in Vita Nova, Quaderni
di Studi Indo-Mediterranei, xiv, 2022, p.316, ed WritghtUp).
Platone ha un bel modo di narrare di quel filo rosso che raccolse dal sapere antico e consegnò nei secoli all’umanità. Ancora nella prima metà del 1900 Heidegger ci indicava nella gettatezza il campo magnetico in cui uomo e natura sono chiamati a vivere in reciproca coappartenenza tra il cielo la terra i divini e i mortali. Paul Klee, le cui tele Heidegger "lesse" con vivo interesse, negli appunti per le lezioni al Bauhaus, scriveva che “nel cerchio più alto, dietro la molteplicità, c’è un ultimo segreto, e la luce dell’intelletto scompare miseramente”, e che a questo segreto è destinato l’uomo e l’artista, il quale deve essere consapevole di appartenere ad una realtà molto più ampia di quella visibile, e anche a tre ordini diversi, quello della realtà immediata, quello del radicamento nel “comune terrestre” che sale dalla Terra, e quello delle affinità cosmiche, che scende dall’alto del cielo.
Il filo rosso fu spezzato, più e più volte, l’umanità è oggi
di fronte ad uno di quei tempi in cui più duramente le cose si smembrano si
fuggono ci sfuggono e sembrano precipitare. Nel momento più cupo nasce ciò che
salva, diceva Hölderlin nella poesia Patmos.
Sarà così anche questa volta? Come si configura il nostro
compito di artisti, ora?



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