Pubblicato su Il Resto del Carlino - Nazione - Il Giorno del 29 maggio 2019
Duecento anni d´infinito
Di Robero Giardina
Leopardi non aveva ancora compiuto
ventun anni quando scrisse l´Infinito. Un ragazzo, si direbbe oggi. Ma dopo due
secoli il sonetto continua a stregare i giovani, perché Giacomo era senza età.
Un giovane già vecchio, o un saggio con il cuore di un eterno adolescente. E
sono stati i giovani, qualunque età abbiano, ad aver salvato questi quindici
versi dai critici e letterati di professione che a scuola (non tutti ma troppi)
spiegano la poesia sottoponendola a un´autopsia, parola per parola, virgole e
apostrofi.
Leopardi resiste, mentre altri idoli
giovanili arrivano e scompaiono. Quanti rileggono ancora “Il giovane Holden” di
Salinger, a parte l´ormai sessantenne Baricco? “Il lupo della steppa” di
Hermann Hesse fu amato per generazioni, ora vende un paio di migliaia di copie
all´anno in Germania. Lettura per laureandi in lettere. Non ci si può
emozionare per i turbamenti di un adolescente americano viziato, o sognare la
fuga in Oriente, come gli hippies degli
Anni Settanta. I figli dei fiori sono i nonni dei liceali che stanno per
affrontare la maturità.
Leopardi era un giovane confinato in
provincia, un paese sul confine dello Stato del Vaticano. E l´Infinito è un
invito alla fuga, nel tempo più che nello spazio. E si evade anche se non si
parte, prigionieri eppure liberi nel luogo dove si è nati. Ognuno può
conquistare la libertà interiore scivolando di verso in verso, e alla fine sarà
rasserenato. Una poesia che si rilegge sempre e non sazia mai.
L´Infinito è stata tradotto in ogni lingua,
dall´aramaico al cinese, proprio perché è impossibile tradurla. La versione
tedesca di Rainer Maria Rilke è splendida ma non rende l´originale. Come
tradurre “ermo”? Una einsame Hügel, una collina solitaria? Esatto, ma è una
spiegazione geografica. Il colle di Leopardi non è il Monte Tabor di Recanati,
o tanto meno il Tabor dei Vangeli, ora in Israele. Non credo che il poeta si
sia ispirato alla vita di Cristo.
Ermo, parola arcaica, dal suono
affascinante perché oscuro, è una sensazione, non è riferito a un luogo. Siamo noi
l´ermo colle chiusi da una siepe che si apre sull´infinito. Lo sguardo giunge
alla prima balza, o all´orizzonte, o corre verso una meta irraggiungibile.
Dipende da noi.
Il messaggio di Leopardi è ottimista, e non lo
dico io. Alla mia maturità nel 1958, il tema era di tre parole “L´ottimismo di
Leopardi”. Lo affrontammo in due, e l´altro uscì di strada. Non fu merito mio,
il professore dell´ultimo anno me lo aveva spiegato, era bravissimo non un
burocrate della letteratura. Come può essere pessimista chi scrive “…e il
naufragio mi è dolce in questo mare”?
E´ un talento raro saper declamare una
poesia. Non ci riuscì neanche Vittorio Gassmann, che mi piaceva, o Arnoldo Foà.
Ma ho visto una giovane tedesca piangere alla lettura ad alta voce de
“L´Infinito”, in italiano di cui non capiva una parola. Commossa dal suono.
Perché gli accenti di un sonetto, i quindici versi, hanno una loro struttura,
un ritmo che è simile a quello del valzer, triste e allegro, seducente e
malinconico, un tempo di tre quarti che ti trascina in un vortice senza una
fine. Una musica d´infinito. Ma occorre il genio di Giacomo, vecchio ragazzo, a
trasformare una gabbia metrica in un´opera ineguagliabile.
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