domenica 30 giugno 2019

9 poesie da "Fernanda Mancini. Il Pensare le immagini è il luogo e il tempo delle icone", Gangemi ed.




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Ma non si va dall'altra parte
la semiretta a destra 
non sa della sinistra
punto tragitto e spazio
sono il boccio aperto
nello stelo di entrambe
fiorisce al centro
il punto d'inversione
il grado in croce
e quello già risorto
dal baratro profondo
del cono al cono opposto
passaggio e meta
che l'uno non trascorre
la pioggia sparge a fiotti
perle di storia antica
e il punto il mezzo
è boccio che fiorisce 






              *
Se tace la parola
parla il silenzio dalle molte lingue
dà voce al dimenticato
negletto
inconosciuto
dà spazio al legame


               *
Per mille e mille solitarie strade
torna a sé
ciò che s'appartiene
ogni notte un unico respiro
si confonde nel vento
sopra la campagna

                *            

Alberi di foresta siamo
la pioggia scivola
in gocce
il sole scalfisce
qualche crosta
l'un l'altro ci specchiamo
tra rami e foglie
dentro nel fusto
il mistero

                *

L'oggetto trovato
reclama giustizia
dall'icona del tempo
che l'ha deturpato
oltre la moda
che l'ha dissanguato
la bella tautologia
d'essere quel che è
la rosa del deserto
la ruota d'autostrada
in fondo sempre solo
uccello francescano
sindone vera
nel paradiso attuale


             * 

La pietra un fiore
una rotella d'umile metallo
il prezioso frammento d'oro
soffrono
nel loro vero volto
l'abbandono del mondo
sfigurano di dolore
e solitudine
nella contumacia forzata
immemore
d'ogni bellezza
nel cui senso dimorano
anche se non lo sai 

            *
Per primo apparve il figlio
pesce di lago fondo
dormiva col serpente
attorno ai grani d'oro 
seguì la madre poi
senza generare 
ordinò tutte le cose
a tutte diede senso
seduta nel gran manto
in centro
al cuore della lingua
a dire lo stupore 
delle stelle in cielo

               *


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domenica 2 giugno 2019

Duecento anni d´infinito


Pubblicato su Il Resto del Carlino - Nazione - Il Giorno del 29 maggio 2019


Duecento anni d´infinito

Di Robero Giardina

Leopardi non aveva ancora compiuto ventun anni quando scrisse l´Infinito. Un ragazzo, si direbbe oggi. Ma dopo due secoli il sonetto continua a stregare i giovani, perché Giacomo era senza età. Un giovane già vecchio, o un saggio con il cuore di un eterno adolescente. E sono stati i giovani, qualunque età abbiano, ad aver salvato questi quindici versi dai critici e letterati di professione che a scuola (non tutti ma troppi) spiegano la poesia sottoponendola a un´autopsia, parola per parola, virgole e apostrofi.
Leopardi resiste, mentre altri idoli giovanili arrivano e scompaiono. Quanti rileggono ancora “Il giovane Holden” di Salinger, a parte l´ormai sessantenne Baricco? “Il lupo della steppa” di Hermann Hesse fu amato per generazioni, ora vende un paio di migliaia di copie all´anno in Germania. Lettura per laureandi in lettere. Non ci si può emozionare per i turbamenti di un adolescente americano viziato, o sognare la fuga in Oriente,  come gli hippies degli Anni Settanta. I figli dei fiori sono i nonni dei liceali che stanno per affrontare la maturità.
Leopardi era un giovane confinato in provincia, un paese sul confine dello Stato del Vaticano. E l´Infinito è un invito alla fuga, nel tempo più che nello spazio. E si evade anche se non si parte, prigionieri eppure liberi nel luogo dove si è nati. Ognuno può conquistare la libertà interiore scivolando di verso in verso, e alla fine sarà rasserenato. Una poesia che si rilegge sempre e non sazia mai. 
 L´Infinito è stata tradotto in ogni lingua, dall´aramaico al cinese, proprio perché è impossibile tradurla. La versione tedesca di Rainer Maria Rilke è splendida ma non rende l´originale. Come tradurre “ermo”? Una einsame Hügel, una collina solitaria? Esatto, ma è una spiegazione geografica. Il colle di Leopardi non è il Monte Tabor di Recanati, o tanto meno il Tabor dei Vangeli, ora in Israele. Non credo che il poeta si sia ispirato alla vita di Cristo.
Ermo, parola arcaica, dal suono affascinante perché oscuro, è una sensazione, non è riferito a un luogo. Siamo noi l´ermo colle chiusi da una siepe che si apre sull´infinito. Lo sguardo giunge alla prima balza, o all´orizzonte, o corre verso una meta irraggiungibile. Dipende da noi.
 Il messaggio di Leopardi è ottimista, e non lo dico io. Alla mia maturità nel 1958, il tema era di tre parole “L´ottimismo di Leopardi”. Lo affrontammo in due, e l´altro uscì di strada. Non fu merito mio, il professore dell´ultimo anno me lo aveva spiegato, era bravissimo non un burocrate della letteratura. Come può essere pessimista chi scrive “…e il naufragio mi è dolce in questo mare”?
E´ un talento raro saper declamare una poesia. Non ci riuscì neanche Vittorio Gassmann, che mi piaceva, o Arnoldo Foà. Ma ho visto una giovane tedesca piangere alla lettura ad alta voce de “L´Infinito”, in italiano di cui non capiva una parola. Commossa dal suono. Perché gli accenti di un sonetto, i quindici versi, hanno una loro struttura, un ritmo che è simile a quello del valzer, triste e allegro, seducente e malinconico, un tempo di tre quarti che ti trascina in un vortice senza una fine. Una musica d´infinito. Ma occorre il genio di Giacomo, vecchio ragazzo, a trasformare una gabbia metrica in un´opera ineguagliabile.