domenica 22 maggio 2016

una citazione junghiana riguardo forma e significato del simbolo


 

 




"La forma esteriore dell'albero può variare per molti aspetti nel corso del tempo, ma la ricchezza e la vitalità di un simbolo trova più ampia espressione nel suo mutare di significato. L'aspetto del significato è pertanto essenziale alla fenomenologia del simbolo dell'albero. Le associazioni mediamente più frequenti - aggiunge Jung a chiarimento - relative al significato sono la crescita, la vita, l'estrinsecarsi della forma in senso fisico e spirituale, lo sviluppo, la crescita verso l'alto e verso il basso, l'aspetto materno, l'età, la personlità, infine la morte e la rinascita". (Jung) 
Il significato del simbolo non è dato una volta per tutte, ma varia nel tempo, dunque il tempo, nella dimensione del suo scorrere, è essenziale al simbolo, perché è in essa che il simbolo rinnovandosi rimane vivo. Debbo su questo punto almeno solo nominare una problematicità, che pertiene a e comporta un livello di comprensione, di sapere e di coscienza diverso da quello del singolo, considerato in queste righe (problematicità esuberante? una falsa pista? una ulteriorità?), e cioè: certamente la dimensione temporale è importante per il singolo, ma lo è anche per uno sguardo diverso, più distaccato -direbbe Marco Vannini- vicino a quello sguardo altro che proponeva Duchamp, e che Hegel avrebbe chiamato Sguardo assoluto?
Il simbolo varia il suo contenuto pur rimanendo il simbolo di uno stesso archetipo, perché l'archetipo, con il quale entriamo in relazione attraverso l'immagine che ci avviene e che chiamiamo simbolo, è più vasto di quella immagine e anzi, dice jung, non è un'immagine, quanto piuttosto qualcosa che avvertiamo, qualcosa che viene a noi come esperienza interiore, come un presentire.






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martedì 17 maggio 2016

Hotel Roma a Torino


In questi giorni sono stata alla fiera del libro di torino per accompagnare Roberto, e in parte per ripercorrere nel ricordo gli amori letterari della mia adolescenza, ho pernottato allo hotel Roma, l'albergo in cui il 27 agosto 1950 cesare pavese decise di togliersi la vita.











mercoledì 4 maggio 2016

kentridge a roma aprile 2016

mio articolo apparso su www.ildeutschitalia.com

MOSTRA KENTRIDGE   al Macro di Roma                                                         

Si è conclusa in marzo, alla Gemälde Galerie di Berlino, la mostra di William Kentridge "Double Vision: Albrecht Dürer & William Kentridge", e già il 12 maggio, sempre a Berlino, se ne aprirà una sua  nuova "No it is!" (dal 12 maggio al 21 agosto), stavolta al Martin-Gropius-Bau, accompagnata da un robusto programma di letture e performances. Nel frattempo in Italia, da Milano a Roma, Kentridge è presente in vari appuntamenti, a Milano alla galleria Lia Rumma, a Roma con una mostra al Macro, lezioni e conferenze al Maxxi e all'Accademia di Belle Arti, e soprattutto con l'opera realizzata sui muraglioni del Lungotevere, tutti gli appuntamenti italiani ruotano attorno a questo affresco.

Kentridge è artista sudafricano bianco, la sua poliedrica attività spazia dal monumentale ai libri, da filmati che documentano visivamente il processo del suo lavoro mentale (un'opera esposta alla Gemaelde Galerie rappresentava il tracciato dei suoi movimenti nello studio, durante la realizzazione di un progetto), alle scenografie teatrali, famoso in tutto il mondo per il suo impegno politico per i diritti civili e molto impegnato nella lotta contro l'apartheid. Per i suoi lavori usa principalmente carta e inchiostro nero.

La mostra al Macro "Triumphs and Laments: a project for Rome" (curata da Federica Pirani e Claudio Crescentini, dal 17 aprile al 2 ottobre) presenta i disegni di un progetto colossale, un "affresco" lungo 500 metri esteso sui muraglioni del Tevere, da ponte Sisto a Ponte Mazzini, rigorosamente in bianco e nero, nello stile di Kentridge, lavoro impegnativo e fortemente voluto per celebrare il Natale di Roma, "anche se la parte più difficile del lavoro - scherza Kentridge in conferenza stampa - è stata proprio quella di procurarsi i permessi necessari", niente di nuovo evidentemente per l'auditorio che incassa con antica consapevolezza.

In due grandi sale al Macro sono in mostra i lavori preparatori per l'affresco, i primi risalgono al 2014, bozzetti realizzati a Johannesburg, a carboncino su antiche carte contabili, sono di piccole dimensioni con cancellature lasciate in trasparenza, a segnare                                                                                         il processo creativo nel suo procedere, arretrare, incertezze e trionfi tutto compreso, una buona guida per intendere questo lavoro, che ancora una volta mostra l'attenzione di Kentridge per il lavoro, la fatica manuale del vivere, il lato concreto dell'azione dell'uomo sulla terra, a ricordare il forte impegno antiapartheid dell'artista.

 "Il mio intento è quello di mostrare le grandezze e le vergogne di Roma nella sua storia", sottolinea l'artista. Gli chiedo quali siano le vergogne più significative che ha voluto rappresentare, pronto e concreto risponde "sono la costruzione del ghetto, l'assassinio di Giorgiana Masi, le Fosse Ardeatine, l'omicidio di Pasolini, Giordano Bruno, per esempio".

Sulla parete opposta a quella dei bozzetti, la loro realizzazione in formato più grande, stavolta ad inchiostro. La tecnica, a vederli da vicino, è affascinante, carica di lavoro artigianale riporta l'arte all'artista, all'uomo, alla sua ricerca personale, ai suoi demoni. La carta nera d'inchiostro è strappata e spesso incollata e incollata di nuovo a strati, testimone del binomio indissolubile pensiero-materia.

Sulla parete più corta invece si vedono in misura monumentale (esattamente nelle proporzioni che hanno sui muraglioni) tre colossali figure nere. Indoviniamo vesti lunghe, a fiori. "Sono le vedove dell'altra parte del mare nostrum, che piangono i mariti morti nel tentativo di raggiungere Lampedusa, uguali a tutte le altre simili della storia " mi risponde.

Molti i disegni ripresi dalla colonna Traiana, Cicerone, varie bighe, riaccostati a figure più o meno attuali con salti temporali a sancirne la continuità. Così nella folla di immagini strette attorno

alla Renault in cui è stato rinvenuto il corpo di Moro, c'è santa Teresa in estasi dal Bernini. iù in là. il tipico pizzardone romano, il vigile urbano, sembra smarrito nel traffico dei ritorni storici.

 La storia di Roma scritta in immagini, come una volta nelle chiese si illustrava la Bibbia per i poveri che non sapevano leggere, ma potevano seguire perfettamente l'immagine, immediata sebbene complessa, accessibile a tutti grazie alla forza polimorfa del simbolo, al lume che accende nella fantasia. O come le storie intrise di archi e affreschi dei cicli della gloria carolingia. Stavolta però, segno dei tempi, non siamo in una chiesa e neppure in un palazzo del potere, ma sulla pubblica banchina del Tevere e le immagini scorrono monumentali sui muraglioni che gli fanno da argine. Kentridge non ha ceduto alla seduzione dell'effimero, alle facili proiezioni di luci e forme per esempio, sull'acqua del Tevere o sui ponti, o a quella del colore e del gioco. Ha voluto fare un lavoro monumentale e iconico ha voluto incidere nella pietra i suoi pensieri, a significare solidità e fondatezza, a dire questi sono i 2769 anni di vita romana, qui c'è stato l'impero il cristianesimo le persecuzioni gli omicidi e le glorie, tutto ciò non è veramente  passato, il corpo di Remo giace accanto a quello di Pasolini, entrambi ci sovrastano come declinazioni della morte violenta e ingiusta e ancora più antica di Abele, Giordano Bruno brucia ancora sul rogo le vedove di tutti i tempi piangono come prefiche greche i morti di Lampedusa, nell'intimità siamo governati dal sogno di Apollo e Dafne, dal bagno di Anita e Mastroianni.                                                                                                    Kentridge ha deciso di invadere il meno possibile, di adattarsi alla pelle della città nel modo meno invasivo possibile, il risultato è una "pittura di sporco", difficile definirla altrimenti.

 "Una delle difficoltà è stata quella di trovare una soluzione per i vari tipi di grigio dei disegni,  impossibili da ottenere con la tecnica a lavaggio che ho usato a Roma".

La tecnica impiegata è infatti la pulitura dello sporco depositato sulle preti, l'effetto ricorda le mani impresse nelle caverne dai nostri primi antenati, il nero delle ombre a evocare il gioco d'ombre disegnate sulla parete dalla luce fuori della caverna di Platone, autore amato da Kentridge che lo cita nelle sue lezioni e nei libri.

L´artista ha sfruttato la massa grigia dell'inquinamento, nella quale viviamo e che è depositata in noi come sui muri. Con opportune macchine ha ingrandito e intagliato delle maschere, che poi sono state poste sui muri, ha fatto poi lavar via lo sporco, ottenendo figure a contrasto in bianco e nero. Il lavoro è stato eseguito dall'AMA, che si è fatta una grande esperienza ripulendo le imbrattature dei muri romani. Prevede che in 5 anni il nuovo inquinamento ricopra le immagini.  E' la condizione dei tempi, immersi nella bambagia grigia, pian piano si smette di vedere. Ma forse oltre lo smog, anche l'abitudine logora la forza delle immagini, e quando la visione si appanna è tempo che l'inquinamento ce le sottragga.

Un lavoro pittorico che si inserisce in un'architettura data, piegandone la ragione funzionale a nuovi significati, schermo proiettivo della coscienza critica della città e al contempo memento "dei tempi della grandezza e di quelli della vergogna". Lo scorrere degli episodi segue il trascorrere dei tempi,"ma non in modo troppo rigido", asettico, chiarisce l'artista. Ricorrente sono i cavalli, sempre più piccoli e scheletrici, o al contrario grandi e           aggressivi strumenti di guerra, a seconda del verso in cui si sceglie                                                                                                 diseguire questa parata, che alla percezione di chi guarda si impone con la forza di ombre sacre, quasi proiezioni di fantasmi interiori emancipatisi nell'architettura pubblica dei muri-argini. Esse aprono un colloquio pubblico con la coscienza di ciascuno e di tutti. Parafrasando Jung, ci si potrebbe chiedere a quali immagini primordiali dell'inconscio collettivo contemporaneo si possano ricondurre queste colossali figure nere che si impongono alla nostra coscienza con tanta forza e drammaticità. Icone primordiali in forme materiali e modalità attuali, le riconosciamo nostre e ci lasciamo emozionare profondamente, le lasciamo vibrare in noi, la storia che ci narrano non lascia via di fuga