martedì 11 ottobre 2011

F.M. " QUELLO CHE FA DI UN GIARDINO APPUNTO UN GIARDINO"


Riflessioni in margine alle tesi di Massimo Cacciari e Achille Bonito Oliva nel volume “Enciclopedia delle arti contemporanee. Il Tempo comico”, a cura di Achille Bonito Oliva, Electa, 2010

Nei manoscritti miniati soprattutto del tardo medioevo, la rappresentazione del giardino sta ad indicare:
un luogo di meditazione
una analogia del cosmo
il simbolo del giardino dell’Eden
(in genere) la cornice che accoglie le parole/immagini, parole “sacre” perché nascono nel giardino, perché sono pensate lì, in quel luogo che conferisce sacralità.

Mi piacerebbe realizzare un moderno tappeto-giardino,
ma questo progetto si scontra subito con la perdita di significato del soggetto tradizionale, ciò è dovuto alla sua funzione utilitaristica e ornamentale? Questa difficoltà mi induce a riflettere sul “giardino”, e innanzitutto sorge allora  la domanda: avvertiamo ancora il giardino come luogo sacro?
Se realizzo un giardino attuale, lo debbo semplificare, cioè togliere il superfluo, faccio allora un giardino in negativo fino ad ottenere un giardino che dice l’assenza del giardino. E per dirne l’assenza bisogna saperne al contempo la presenza, quello che fa di un giardino appunto un giardino. E qui, sia detto solo come inciso, le strade del creatore e del fruitore si dividono; di qui la scaturigine delle incomprensioni ma anche il ruolo pro-fetico, a-venire dell’arte.

Posso dunque creare un giardino moderno? Ed è esso  possibile solo come memento mori? Come giardino del non, ove non ci sia analogia con il cosmo, non ci sia simbolica dell’Eden, che non sia sacro, e soprattutto dove non ci sia meditazione?
                                                               
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Che cosa fa meditare noi moderni, noi uomini “attuali”? Su che cosa meditiamo? Quale luogo ci induce alla meditazione? La natura? Una chiesa?

Prima del tempo moderno, la natura era di tutti, mentre il giardino era per i ricchi, per i potenti, dunque per i pochi, era costoso e dunque raro. Attraverso la rarità e la ricchezza, si produceva uno “shock” meditativo e scattavano le analogie che permettevano di leggere la simbolica dei fiori, dell’ordine del giardino e di qui si affacciava alla mente il pensiero di un principio d’ordine in generale, che valeva per tutto ciò che circonda l’uomo e la terra e il cielo, ecc.

Kant prima e i romantici poi sostituiscono la funzione della  natura a quella del giardino. La natura fa nascere il sentimento del sublime, che è un “totalmente altro”, in cui dunque nessuna delle leggi che conosciamo vale. Il pensiero di un ordine, che era prima evocato dal giardino come analogo al pensiero d’ordine del cosmo, decade; ogni pensiero d’ordine sta per rivelarsi come solo umano.
La meditazione non può più essere suscitata dal giardino – e di fatto non lo è più. Kaspar Friedrich si immerge nei mari, negli alberi, nei boschi, ecc. Il disordine della natura selvaggia – che sfugge all’umano – è il suo luogo di meditazione. Ed è una meditazione sul totalmente altro, negazione di ciò che si conosce e degli strumenti conoscitivi, è una meditazione negativa, a togliere ciò che non è.

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In seguito, anche la natura si fa ambigua, perché a far data dall’ultima parte del secolo xix sappiamo che in essa è comunque in opera il nostro operare (intellettivo), in essa meditando, riflettiamo sulle conoscenze che di essa abbiamo. Con un unico residuo (ma di fondamentale importanza): la sua esistenza è indicibile, ma è. Qualcosa è, e anche se fosse tutto un sogno e non avessimo strumenti per distinguere il sogno dalla realtà, essa seppur come sogno (nostro) in sogno ci si opporrebbe, ci starebbe di contro, e il suo essere (il fatto della possibilità della sua esistenza), sfuggirebbe alla nostra coscienza e alla nostra autocoscienza.

La meditazione contemporanea ci porta a dire che qualcosa è, e l’arte contemporanea produce affermazioni d’essere, dice, ridice, torna a dire che qualcosa è.Quindi l’arte contemporanea, togliendo tutto ciò che non è, si trova a dire che “qualcosa è”.
Ci riesce?
Però, al di là della risposta a questa domanda, si deve sottolineare questo punto : che questo è il compito che l‘arte ha di fronte a sé, ciò che la sostanzia e la fa viva, oggi.
Che essa, nel suo affermare che qualcosa è, in forme e linguaggi e materiali sempre diversi, non è ripetizione dello stesso (concetto), ma indagine allargata, nel campo che le è proprio cioè quello del concreto, e nelle concrete/astratte forme di quello che più sopra abbiamo indicato come “residuo”. Dunque compito positivo. Non è ripetizione nichilistica, impossibilità a non contraddirsi, e dunque eterno “comico” sbattere la testa contro il proprio limite per tornare a sbatterci sempre di nuovo contro, come scrive Massimo Cacciari nella Introduzione alla “Enciclopedia dell’arte contemporanea. Il tempo comico”.
                                                              
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Non sappiamo, perché esula dalla nostra contemporaneità sapere, dove e come procederà l’arte (e la società, di cui essa è la punta indagante più avanzata) oltre questo punto, ma sappiamo che è positivamente in questo punto attestata, come giusto in chiusura della Post-fazione alla “Enciclopedia dell’arte contemporanea. Il Tempo comico”, butta lì Bonito Oliva, a scompaginare quanto appena e con convinzione aveva affermato nel segno di un nietzschianesimo nichilista, ed il suo respiro profetico è una luce più forte di ogni lanterna. “A conferma comunque di un tempo comico nel quale l’artista è un errore biologico rispetto all’opera che, malgrado il suo essere frammento, ha ben altre aspirazioni di durata. A conferma di un tempo comico”. Di nuovo nasce la domanda perché? Perché l’opera eccede l’artista che la crea?

Fernanda Mancini

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